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Bandaged, un ero-noir da scoprire

Written by  07 Dec 2010
Published in Cinema
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Capolavoro sulla lunga durata della regista underground-fetish Maria Beatty, Bandaged è un oggetto scomodo che fonde noir, melodramma familiare e roventi scene lesbo in una messa in scena algida e vermeeriana. Da scoprire, anche se nell'italico cinema "fasciato" non circolerà mai.

 


 

E' da un po' (da Buried per la precisione) che su Posthuman non si parla di cinema. Grave, ma basta dare un occhio ai tamburini dei film in sala per capire in che incubo stiam vivendo... tolto l'eccellente The Killer Inside Me di Winterbottom (di cui leggete la mia recensione su Nocturno QUI) si fa fatica ad aver voglia d'entrare in un cinema!
Mi son posto spesso la domanda: recensire anche le uscite straight to video? I film reperibili solo online? Alla fine, la risposta sta nella qualità del film: visto nelle anteprime veneziane Cold Fish del (da me) amatissimo Sion Sono (su cui si tornerà presto), per quanto se ne dicesse un gran bene (ad es. leggete QUI), mi è parso troppo compiaciutamente splatter e grottesco per alimentare seriamente le angosce sul disperato destino della razza umana e del suo nucleo base (la famiglia, campo di battaglia del regista) come le premesse lasciavano supporre.
Resto affezionato ai suoi passati Suicide Club e Strange Circus: ma ha senso criticare un film che quasi nessuno avrà la possibilità di vedere?

Visto 30 Giorni di buio 2 (hv Sony), sequel della trasposizione dell'ottimo fumetto vampiresco di Steve Niles/Ben Templesmith, che segue (non molto fedelmente) il secondo capitolo della saga - "Giorni Oscuri" (Magic Press) - mi è parso che non ci fosse poi granché da dirci sopra...

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Poi, un giorno, arriva il film altrettanto invisibile di Cold Fish ma che ti lascia un segno, allora riprendi la penna (tastiera) perché almeno ha un senso segnalare a chi ci legge che nel mare magnum delle boiate che ci infligge il mercato, fra le pieghe qualcosa di scomodo e coraggioso riesce ancora a venire alla luce: si tratta di BANDAGED (coprod. USA-Germania del 2009), debutto nel lungometraggio della cineasta newyorkese Maria Beatty, finora dedita a corto e medio metraggi ero-lesbo-fetish (siamo in area Richard Kern & co., per capirci, ma approfondite QUI), molto arty tra gothic, espressionismo e surrealismo (ho visto The Elegant Spanking ed è davvero cool, col suo b/n muto rétro e la colonna sonora di John Zorn, tanto per ribadire quel che si diceva in un recente articolo sul corteggiarsi fra arte underground e porno).
Ed eccoci dunque al film protagonista di questo articolo, di cui finalmente ci occupiamo e con slancio perché va ben oltre i confini del (pur presente) erotismo exploitation-lesbo, distillando da un'ardita commistione di generi una cifra registica ben salda oltre che controcorrente.

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Pur vantando il maestro (e concittadino) Abel Ferrara come produttore esecutivo, il film della Beatty non potrebbe essere più agli antipodi del cinema nevrotico e metropolitano del maudit italoamericano: ambientazione aristocratica (austera magione in campagna), luci e colori freddi e vermeeriani, movenze composte e dialoghi essenziali fino alla glacialità, qui ci troviamo più nei climi emotivi del capolavoro Il Nastro Bianco di Haneke.

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E di dramma familiare anche qui si tratta, infatti: la bella figlia quasi 18enne dell'affermato chirurgo plastico (Hans Piesbergen, quasi un Kinski giovane e gelido) si sfigura il viso angelico dopo l'imposizione paterna di studiare materie scientifiche e non la poesia "decadente" (Baudelaire, Wilde) amata dalla ragazza.

A questo punto il film in qualche modo si biforca, carezzando e amalgamando suggestioni provenienti da generi diversissimi: da un lato il chirurgo si dedica a ricostruire il volto alla figlia grazie alle sue ricerche avanzatissime, per cui ci vengono alla mente riferimenti nell'horror gotico a partire da Occhi Senza Volto di Franju (e i mille remake e sviluppi dedicati al tema da Jess Franco e altri).

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Dall'altro scorre e si gonfia impetuosa la storia d'amore saffico fra la giovane paziente e la più matura infermiera, che dà vita ad alcune scene lesbo erotiche davvero ardenti e senza remore (da far vedere a scuola ai registi italiani che vorrebbero "toccare temi scomodi", Cristina Comencini in testa), come intuite anche dall'immagine qui a sinistra.

Il climax drammatico ed emotivo si raggiunge quando - proprio durante una delle suddette scene 'hot' - sul volto di Lucille (Janna Lisa Dombrowsky) si riaprono le ferite: la cura non ha funzionato, occorre derma vivo da trapiantare. Lo offre l'appassionata infermiera Joan (Susanne Sachsse) e la scena del trapianto (foto sotto a destra), nella glacialità chirurgica che anima l'intera pellicola, è la più vicina ad un concetto di "horror", che il film della Beatty lambisce appena, più alludendo al genere che sprofondandoci in pieno.

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Non andiamo oltre a vostro benficio, ma sappiate che il finale è nel segno del noir passionale. E che le passioni più brucianti esplodano in un contesto tanto asetticamente freddo e trattenuto è forse il segno più forte del film, l'originalità che lo stacca di diverse lunghezze da qualunque prodotto gay-sexploitation, sia esso della Beatty stessa o dell'ambiente di riferimento in generale (i festival gay-lesbo di cui è già una star).

Personalmente, a Cesare quel ch'è di Cesare, devo la scoperta del film alla rubrica Cinesex/Lesborama di Davide Pulici (Nocturno n. 95 di luglio), il quale l'ha giustamente incoronato miglior film finora trattato da quella colonna.
Se, tra matrimoni natalizi, maschi contro femmine e idiozie nord-sudiste anche voi cominciate a temere di affogare, cercatelo.
Garantisco che non vi annoierete.

Mario G

Last modified on Thursday, 09 December 2010 17:47
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