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Swans - confusion is sexy

Written by  14 Oct 2014
Published in Musica
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La band di Michael Gira all’Alcatraz di Milano stordisce e stupisce con un set industrial psichedelico che salda il trip di Ummagumma ai terrorismi noise di Sonic Youth e Einstürzende Neubauten.

 


 

L’astronave Discovery ritorna sulla Terra dallo spazio profondo nel duemilacentoequalcosa, ma la ritrova un deserto di detriti ferrosi battuto da un’armata di macchine letali che sparano su qualunque cosa emani calore vitale.

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Questa l’immagine che mi viene alla mente mentre le due ore e mezza di metalliche progressioni minimaliste degli Swans vorticano violentando i miei timpani durante il loro concerto all’Alcatraz.
Un concerto fluviale (nonostante il biglietto accessibile a 20 euro) e pesante come il monolito nero di Odissea nello Spazio (per restare nella metafora iniziale), che ciononostante probabilmente ricorderemo come una delle performance musicali “in cui esserci” di questo 2014, un po’ come (parallelo personale) quella degli Einstürzende Neubauten al Rolling Stone del ’93.

Nonostante la sfida percettiva portata dai volumi degli strumenti (che spesso soverchiano il violino, il trombone e il clarinetto cui il nibelungo Thor alterna le percussioni in cui sta immerso a torso nudo e a 2/3 del set ci hanno spinti ad arretrare dal palco per salvarci) e dall’iteratività ad un certo punto davvero sfibrante delle pesantissime litanie per tre chitarre (Michael Gira, Christophj Hahn e Norman Westberg alla steel guitar), basso (Chris Pravdica), batteria (Phil Puleo) e percussioni (Thor Harris il barbaro polistrumentista), che si snodano circolari per delle mezzore, portando all’estremo le sonorità e le durate dei brani dei due (peraltro ottimi) doppi album degli Swans (The Seer e To Be Kind, cover orribile in apertura, registrato proprio nello studio di Blixa Bargeld & co.).

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Apre la serata un quarto d’ora circa di performance industrial-urlante di Pharmakon (foto ai lati e sotto), una graziosa biondina che di nome fa Margaret Chardiet ma che di grazioso ha solo l'aspetto, mentre al microfono bercia come un'ossessa su loop elettronici barbarici percuotendo una tavoletta metallica amplificata e non esita a scendere dal palco per imprigionare alcuni spettatori col cavo elettrico del microfono e tirarli praticamente addosso a sé per stimolarne le reazioni.

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Dopo una mezz’ora di preparazione strumenti, i brano d’apertura degli Swans (non sono in grado di ricollegare il magma sonoro ai titoli sui dischi) è emblematico: aperto da un bel 5’ di solo gong di Thor Harris, procede con almeno altrettanti minuti di gong e batteria, poi entrano anche gli altri musicisti e il mosaico si completa una sezione alla volta, crescendo in spirali telluriche fino a deflagrare definitivamente oltre 40’ dopo.

Quanti ne suonano gli Swans in due ore e mezza? Sette, otto? Non saprei ricordarlo, comunque più che di singole “canzoni” (in cui peraltro il leader ci nega quasi sempre il suo vocione baritonale) di stream of (un)consciousness strumentale, allucinate (guardare gli occhi di Christophj Hahn mentre suona per capire) ma precisissime al contempo, il caos di Gira ha sempre un suo metodo rigoroso. Come sempre rigoroso, anche se ricco di sterzate sonore, è stato il suo percorso musicale ormai trentennale tra Swans e formazioni parallele (a nome proprio di Angels Of Light, Body Lovers etc.).

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Per una volta, la frase usata dal leader per definire il suo ultimo disco ("Ci sono voluti 30 anni per realizzare ‘The Seer’. E’ il culmine di tutti i precedenti album degli Swans, così come di qualsiasi altra musica io abbia fatto od immaginato") non suona banalmente promozionale ma esattamente la realistica: nei lunghi brani degli ultimi Swans si ritrovano distillate sotto controllo la furia noise degli esordi, le atmosfere dark, le ballad cupe alla Nick Cave… fino alla sintesi finale, che il live set rende ancor più evidente con le sue volute strumentali cosmiche. La saldatura definitiva, in quelle litanie circolari, di un cerchio, un uroboro i cui due estremi s’erano sempre considerati antipodici: la psichedelica progressiva di Ummagumma e le dissonanze chitarristiche noise dei Sonic Youth (anche quelli più sperimentali dei dischi con Jim O’Rourke), un po’ come scrivevamo qualche mese fa nell’articolo su prog e wave.

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Fortunatamente, quando la nostra resistenza fisica comincia a mostrare qualche crepa, Gira e i suoi allentano un attimo la tensione: parte un brano che sa tanto d’apertura di Set The Controls For The Heart Of The Sun e, quando le sue spire si sono dispiegate nell’aria, il leader ci regala finalmente una delle sue rare performance vocali della serata: peccato, perché il timbro morrisoniano accende subito nella memoria il ricordo di una When The Music’s Over dei Doors, che è un bellissimo sentire. Ma perché così poco canto, Michael?

È uno dei (pochi) rimpianti della serata, che per idealmente avrebbe potuto mettere insieme (e magari l’ha fatto) i fan degli Hawkwind, del post rock e dell’industrial. E noi, che abbiamo raggiunto solo con l’età matura una visione musicale d’insieme in cui le barriere fra generi e i relativi ideologismi sono crollati e tutto è finalmente connesso con tutto. Come in effetti dev’essere in una materia fluida come la musica… come la realtà… come le famose porte di Huxley.


Mario G

P.S.: a parte la cover dell'album in apertura, e il trittico di Pharmakon al centro (by MarioG), le foto del concerto sono state reperite su Internet, dalla pagina FaceBook del gruppo: sappiamo che la prima in alto a destra risulta di Michele Poloniato ed è scattata al concerto dell'Alcatraz, ma non possiamo garantire che siano tutte relative al concerto milanese. Posthuman ringrazia gli sconosciuti autori, restando pronto a citarli qualora si identifichino.

Last modified on Tuesday, 14 October 2014 23:34
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