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Rebecca

Written by  14 Oct 2015
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Un desolante squarcio di squallore e degradazione rurale, che evoca mefitici ricordi dei deformi villici di Un Tranquillo Weekend di Paura. Un racconto di Marco Marchetti.


 

27 settembre

 

L'avevo capito da come mi guardava, che era uno di quei giorni lì. Anzi, da come non mi guardava, e teneva la testa bassa, le mani che stropicciavano quel suo cappellaccio usurato, i piedi che si trascinavano nell'erba bagnata pur di impegnarsi in qualcosa. 

Non hanno nome, quei giorni, perché ti si attaccano alla pelle come colla, puoi grattare, strappare, fare quello che vuoi, ma alla fine è tutto inutile e accetti la loro presenza con una rassegnazione che non avresti mai pensato di avere. Ti scuoti nelle spalle e torni a scaricare legna da quel fottuto trattore col rimorchio incrostato di ruggine. 

Doveva averli visti tagliare per il campo, un mezzo ettaro di terreno incolto che si estende dalla collinetta per Gaggio e lambisce i primi tronchi del faggeto. Oreste ci ha ricavato un pollaio lì in mezzo, tiene oche e galline e credo un paio di maiali che non ammazza perché ha la lacrimuccia facile. Prende sempre delle scuse, ma il punto è che non ha il coraggio di fargli saltare la testa. Una volta mi ha detto: “Non saprei nemmeno dove procurarmi un fucile”. Io ce l'ho un fucile, e lui lo sa. 

Loro due invece abitano più giù, in una specie di cascinale restaurato parallelo alla provinciale. Chissà dove hanno trovato quella motoretta mezza scassata. Oreste dice che l'hanno rubata, ma è più probabile che sia stata recuperata da qualche rigattiere di Inarzo. Ce n'è uno che li conosce, ogni tanto gli rifila roba di quarta categoria come il giubbotto usurato in nappa che indossa lo smilzo. 

Oggi è stato pesante. Oreste ha sputato nel terreno e mi ha fatto segno di continuare. Ho le mani gonfie e nodose, e anche a mettersi i guanti le schegge si conficcano lo stesso nella pelle. Alla sera le devo tirare via con le pinzette per le sopracciglia. D'altronde Oreste è messo peggio di me: ha l'artrite ed è zoppo dalla gamba sinistra. Dovrebbe usare la stampella, ma si vergogna, così gli do una mano quando posso. E poi che sto a casa a fare? 

So cosa gli passa per la testa a quei due. C'era puzza di umidore e segatura. Soltanto chi è nato nei boschi sa di cosa parlo. Umidore e segatura. 

“Merda, è così” mi ha detto, e mi ha messo una mano sulla spalla. Ho apprezzato quel gesto, ma avrei preferito che non l'avesse fatto.

Ho avvistato subito la motocicletta, un pugno nell'occhio nel mio giardino, che non è un giardino particolarmente curato, ma insomma fa la sua bella figura. Era parcheggiata contro un olmo perché non ha il cavalletto, e così la devono poggiare dove capita. È una carcassa vecchia e piena di buchi, la marmitta è talmente usurata che mi stupisco non li abbia ancora lasciati per strada. 

Sono dei disgraziati, degli schifosi. 

Sono entrato in casa preoccupandomi di sbattere gli scarponi sullo zerbino della veranda. Sono tutti rovinati e sporchi di fango. Mi chiedo perché non mi decida a comprarne un paio di nuovi. Forse mi adatto alle circostanze, sono un nostalgico e non mi piacciono i grandi cambiamenti. Non ho mai nemmeno pensato seriamente di mandarli via, perché dovrei gettare nella spazzatura due vecchi e fidati scarponi?

Mi sono seduto sul divano. Ero stanco e puzzavo di sudore. Ho preso la grappa dalla credenza e me ne sono versato un goccetto. È il mio rituale del tardo pomeriggio, quando torno dalla passeggiata o da qualche lavoretto saltuario. A volte vado a caccia, ma allora devo spennare la preda e metterla in padella. Non mi piace uccidere gli animali, ma quello stupido cane non mi dà tregua. È un Setter irlandese di undici anni, cieco da un occhio. Si chiama Briciola. È stata Rebecca a chiamarlo in quel modo. Le ho detto che è un maschio, ma non c'è stato niente da fare. Le piaceva quel nome, e si è messa a piangere quando ho proposto di selezionarne uno più adatto. 

Sparo ai fagiani perché Briciola si tenga in forma, perché possa sentirsi ancora giovane e fare ciò che è nella natura del cane, ma questa cosa proprio non la capisce e pensa che sia lui a rendermi contento. Come se fosse il cane a portare a spasso il padrone e non il contrario. 

Li sentivo. Tutti e tre. Le pareti sono sottili, le porte vecchie e mezze scardinate. Briciola ha adagiato il suo muso bavoso sulla mia gamba. L'ho accarezzato e ho continuato a sorseggiare la grappa. Fuori dalla finestra, il cielo era grigio e pieno di nuvole. Ho sperato che venisse a piovere, proprio come la notte scorsa e quella prima ancora; che i tronchi si bagnassero, che il bosco cominciasse a macerare. È questo che succede quando piove, tutto si infradicia e diventa gonfio come il corpo di un annegato. 

“Ciao babbo, bevuto il cicchetto?” mi ha chiesto lo smilzo, quando mi è passato davanti diretto alla porta. Il tarchiato gli era subito dietro, e mi ha mollato una scoreggia praticamente in faccia. Poi ha riso, e mi è sembrato una iena. 

Io non ho risposto. Sono stanco di litigare con le persone, sono stufo di tutto. Vorrei soltanto essere lasciato in pace, stordirmi con questa dannata bottiglia e non pensare più a niente. Bere fino a sonnecchiare sul divano, completamente inebriato dall'odore di grappa e dal puzzo di pelo bagnato. È l'unico modo per non sentirli ridere, per non sentire il passo baldanzoso con cui calpestano il parquet del mio salotto. 

“Che naso grosso che ha! Davvero molto grosso”.

“È finto 'Becca, non vedi che ha gli elastichini che lo fissano alla testa?”

“Mmh... è finto, sì”.

Mangiava i popcorn che le ho comprato al discount del paese. Non sa fare altro che mangiare, riempirsi la bocca e andare di corpo. Come Briciola. Gli esseri umani non sono diversi dai cani, mangiano e cacano per ricominciare tutto daccapo. 

Era una replica del Bagaglino, una di quelle cose che mandano a tarda ora sulla costellazione Mediaset. Detesto la televisione, detesto i comici, detesto tutto ciò che alla fine mi ritrovo costretto a vedere. Almeno a Rebecca piace, e io sono contento quando qualcosa la distrae. 

“Guarda, fa le puzze” ha detto lei, indicando lo schermo con quel suo dito sgraziato. 

Qual è il sogno segreto di ogni padre? Chiamare principessa la propria figlia, prenderla in braccio e portarla alla sua festa di compleanno, farla sentire importante, al centro dell'attenzione. Né io né sua madre abbiamo mai avuto il coraggio di farlo. Siamo stati due vigliacchi, e ancora oggi non sono riuscito a superare il senso di colpa. Ho pensato a Oreste e alla sua pacca di incoraggiamento. Voleva dirmi che non c'era motivo per prendersela più del necessario, che ho fatto quello che potevo per essere un buon padre, e tanto basta. 

“È solo un cuscino pieno di aria. Appena si siede, l'aria esce e parte quel rumore di pernacchia...”

“Uffa, non sei divertente” ha protestato lei. 

Ancora quel suono, un sacchetto di plastica schiacciato, tozze dita che scavano nell'untume. 

 

2 ottobre

 

alberiNon fosse stato per Briciola, non avrei deviato dal sentiero. Quel cretino di un segugio non si fa mai gli affari suoi: basta che punti il naso a qualche pista invisibile, e chi lo trova più. L'ho chiamato più volte, e ho sentito i suoi guaiti. È stato un tipico caso di indecisione canina: da un lato l'esigenza di sottolineare la propria forza d'animo, dall'altro la convenienza di ubbidire al padrone. 

Mi sono caricato il fucile sulla spalla e ho preso una viuzza laterale, una specie di tratturo per pecore tutto pieno di fango e pozzanghere. C'erano delle zanzare che svolazzavano tra le felci. Le ultime della stagione. Avevo un fagiano morto che mi penzolava in mano. Gli scarponi affondavano nella fanghiglia, la gomma della suola veniva risucchiata da quella distesa maleodorante di pantano. 

Briciola aveva trovato un'apertura tra i pruni e si era messo ad abbaiare festoso sul terreno di Oreste. Ho pensato diverse volte di costruirmi in pollaio sul retro di casa, ma sua moglie mi viene spesso a trovare con un cesto di uova, e allora l'idea mi esce dalla testa con la stessa velocità con cui ci è entrata. Pollaio è una parola grossa, comunque. Quattro assi messe in croce, legno mangiato dall'acqua, tetto ricoperto da un tappeto di muschio spesso come lana. Le galline razzolano per quello schifo, scavano buche nel fango, di tanto in tanto infilano il becco in qualche fessura del terreno per cavarci fuori un lungo verme rosato. 

Briciola era fermo davanti alla casetta dei conigli. Scodinzolava e abbaiava poco convinto. Ho capito subito cosa stava cercando. Idiota di un cane. Sono circondato da una cappa di idiozia e indifferenza. È la mia maledizione, la maledizione che il destino mi ha cucito addosso come un abito. 

Avrei dovuto tirare dritto, quando ho visto la motoretta. Avrei dovuto fare finta di niente, e tornarmene a casa. Briciola mi sarebbe venuto dietro più tardi. I cani sono così, dei piccoli anarchici, ma quando hanno fame si ricordano sempre chi dà loro da mangiare. 

“Ti piacciono i conigli, eh? Anche a me piacciono...” 

Risate. Sporcizia. Fetore. È stato quello ad attirarmi fino alla casupola. Ho posizionato una vecchia stia sotto la finestrella e mi sono issato sopra. La puzza di escrementi era terribile. C'era una luce grigiastra che illuminava quei loro corpi intrecciati. Lo spazio era quello che era, mezzo occupato dalle gabbie dei coniglietti e qualche attrezzo da lavoro poggiato alla parete. Una mamma coniglia aveva appena partorito. Rebecca teneva un piccolo in mano, lo cullava nel palmo e ci alitava sopra per proteggerlo dal freddo. Il suolo era in terra battuta, pieno di paglia appiccicaticcia e foglie rinsecchite. Era tutto quanto disgustoso. Non sono nemmeno riuscito a provare vergogna per me stesso, a concedermi quella pietà che mi avrebbe convinto ad allontanarmi. Forse non me la meritavo, forse sentivo di dovermi infettare fino in fondo con l'indecenza di quello spettacolo. 

C'era soltanto il grasso, lì nel tugurio. Rebecca è di bassa statura, tozza, inelegante come una bambina intrappolata nel corpo di un adulto. Ha grossi seni penduli, coronati da un capezzolo peloso a forma di scudo, e un sedere cascante. Lo smilzo ci affondava dentro con la golosità di un pasticciere, le mani sui fianchi, i lombi che si facevano strada tra le pieghe di quel flaccidume. 

Erano le vibrazioni a offendermi, più che l'atto in sé. Quelle vibrazioni che muovevano il suo culo repellente, che lo facevano fremere come un piatto di gelatina sopra una lavatrice. Riuscite a immaginarvi la scena? La centrifuga parte, la ruota gira impazzita, e la piramide di confettura comincia a traballare e sussultare, gli strati più bassi che danno impulso all'oscillazione della sommità. 

Il tarchiato era davanti a lei. Aveva un pisello lungo e mezzo floscio, e Rebecca glielo accarezzava con le labbra. Non saprei quantificare il tempo speso a osservarli. Forse un minuto, forse cinque. Poi ho tirato un calcio a Briciola e l'ho convinto a seguirmi verso casa.

È stato il boato della motocicletta ad avvisarmi del loro rientro. Un rumore terribile, come di metallo che si piega e scoppia, accompagnato da un pennacchio di fumo nerastro. Risate di scherno. Piedi che correvano nel giardino bagnato. Io ero ancora sul divano, il fango che si solidificava sul parquet, il fucile reclinato sulle ginocchia. 

“Ehi babbo, ci pigliamo qualcosa da bere, neh?” mi ha fatto lo smilzo. 

È unto come quei quattro peli che gli spuntano sulla testa. Li pettina a riporto, e davvero non capisco come si possa essere tanto giovani e andarsene in giro con tutta quella brillantina spalmata sul cranio. Ha aperto il frigo e ha afferrato due bottiglie di birra, una per sé e una per il compagno.

“La tua birra sa di piscio, però ci piace lo stesso. Tanto è gratis”. 

“Anch'io voglio la birra...” ha protestato Rebecca. 

“Vai a farti la doccia” mi sono intromesso, “Sei tutta sporca di melma”.

Rebecca mi ha guardato come a voler dire la sua, poi ci ha ripensato ed è sparita per le scale. Ho aspettato qualche minuto, fino a quando non ho sentito il getto dell'acqua calda colpire il piatto doccia e scorrere giù per i vecchi tubi dell'abitazione. Lo smilzo mi ha fissato con quell'aria strafottente e ha brindato alla mia salute. Io ho puntato il fucile ai suoi piedi e ho premuto il grilletto. Briciola s'è messo ad abbaiare terrorizzato, ma il frastuono è stato talmente forte che i suoi latrati si sono persi nel ronzio acustico che segue a uno scoppio in uno spazio chiuso. Il proiettile ha perforato il parquet, lasciandosi dietro un foro frastagliato delle dimensioni di una moneta da due euro. I balordi hanno iniziato a urlare e si sono dati alla fuga. Io li ho seguiti fino all'ingresso. Erano terrorizzati, meravigliosamente terrorizzati. Scalciavano e rognavano come gatti. Non avevano nemmeno la forza di insultarmi, ma facevano questi versi, da cavernicoli che battono in ritirata di fronte alla tribù meglio equipaggiata. 

Mi sono appostato sulla veranda e ho preso di nuovo la mira. Questa volta ho centrato il serbatoio della motocicletta. Lo smilzo l'aveva quasi raggiunta, se avessi esitato per un paio di secondi ancora, probabilmente le lingue di fuoco gli avrebbero arso parte della faccia. 

Ecco un dito medio che si levava alla canna del fucile. Ecco quattro mani rabbiose che stringevano le zolle di erba e le strappavano dal mio giardino lanciandomele addosso. 

Fuoco. Cenere. Tanfo di benzina. 

Questa volta mi sono messo io a ridere. È stato liberatorio, la prima seria risata che mi sia concesso negli ultimi mesi. Sono rientrato in casa. Rebecca era nuda e gocciolante. Ha cominciato a inveire, ma avevo ancora quel ronzio dannato nelle orecchie e non sentivo nulla. Allora mi ha preso a pugni, ma non era molto convinta di quello che faceva. Era triste ma incredula, ancora non capiva perché le avessi sottratto il giocattolo. 

Le ho fatto chiudere le tube. È stata una decisione difficile, ancora più difficile per il fatto che non ci fosse mia moglie a condividerla. “Non te l'avrebbe mai perdonata” mi ha detto Oreste una volta. Che potevo rispondergli? I morti non parlano, non pensano e non elargiscono consigli. Alla fin della fiera non c'è nient'altro che la tua coscienza a tenerti compagnia. È con lei che devi fare i conti quando vai a dormire, è sempre lei che ti sorride quando socchiudi le palpebre al mattino. 

Avrei voluto spiegargli meglio le cose, ma tanto non avrebbe capito. Sua figlia lavora a Lugano, ha un ufficio ben arieggiato in estate e ancora meglio riscaldato in inverno. I suoi nipoti sono robusti e sani. 

Abbiamo quasi finito di impignare la legna. Oreste ha una specie di tettoia in plastica verde. Mi piace toccare la legna; ha una forma delicata, una consistenza che mi ricorda qualcosa di antico e fondamentalmente saggio.

Oreste mi ha offerto del vino e una tagliata di affettato, e ci siamo seduti a mangiare in cortile. Sua moglie spazzava il patio con una scopa di saggina e raccoglieva le schegge di segatura che il nostro lavoro ci aveva costretto a disseminare in giro. 

L'ho fatta ingrassare perché fosse ancora più brutta. Non credo che abbia mai avuto intenzione di sbeffeggiarmi, ma una parte di me, quella che non s'è ancora rassegnata, mi ha messo in testa delle cose. Brutti pensieri. Ho tentato di scacciarli, ma alle volte mi piegano. E allora mi dicono che ride di me, che approfitta della mia disponibilità per manovrarmi come un burattino.

 

4 ottobre

 

Da due giorni è irrequieta. Ieri sera stavamo mangiando. A un certo punto si è alzata e ha sbattuto per terra il piatto di minestra. Quindi ha affondato le mani in quella sbobba appiccicosa e ha preso a passarsela per le guance e sul collo. Mi ha guardato e ha detto: “Non ti voglio più bene, papà”. È stato come ricevere una coltellata nel fegato. Lei ha trent'anni e io sessantotto. 

 

7 ottobre

 

Ha piovuto ancora. Furiosamente. Il terreno è tutto un acquitrino. L'ho portata su in collina, in una radura ricoperta di erba ondulata. Ai lati del sentiero c'erano macchie di felci disordinate, gli steli spezzati dal temporale, le rocce umide per quelle cascate di gocce incessanti. Briciola correva da tutte le parti, felice come soltanto un cane sa essere. Non credo di aver mai invidiato così tanto un Setter come oggi. Saltava e ruzzolava nel fango con incredibile caparbietà canina, quindi si sedeva su quelle sue gambette striminzite e mi fissava in attesa di approvazione. 

“Guarda, papi. Ci sono i funghi” ha detto lei, e si è chinata su una specie di conca tra i sassi, dove l'umidità della notte aveva favorito la crescita di alcuni funghi velenosi. 

“Non sono buoni, 'Becca” ho precisato.

“Sì, invece. Stasera ci facciamo una bella zuppa. Una zuppa di funghi... mmh, che delizia!”

Ho lasciato che li raccogliesse, che si sollevasse il vestito per farci una sporta all'altezza del ventre e metterceli dentro. “Tanti bei funghetti da buttare in padella...”

Ho sospirato, e ho imbracciato il fucile con cui pochi giorni prima avevo fatto esplodere la motocicletta dello smilzo. Non provavo più nulla, se non una disperazione talmente grande che non mi faceva nemmeno male. Era come avere un lago dentro, seppellito da qualche parte in fondo al cuore. Un lago così profondo da risucchiare qualsiasi cosa, persino i sentimenti che quello stesso lago avrebbero dovuto alimentarlo. È stato terribile. 

Ho puntato la canna dell'arma alla sua nuca. Era girata dall'altra parte, tutta intenta a strappare quei piccoli gambi dal terreno argilloso. Canticchiava e ravanava con le dita sporche di fango. Non se ne sarebbe mai accorta. Mi bastava schiacciare il grilletto. Una leggera pressione del polpastrello e il suo cervello sarebbe schizzato sulle rocce come un grumo di formaggio molle. 

Tutto d'un tratto Briciola si è messo ad abbaiare. Era lì nella sua pozzanghera, il pelo gocciolante e il fiato corto. Ho indirizzato il fucile verso di lui e gli ho piantato un proiettile nel collo. Un tiro secco, da maestro. La pallottola lo ha colpito dritto alla gola, l'ha quasi decapitato. Ho visto tutto al rallentatore, il foro di uscita che spruzzava sangue peggio di un idrante, la testa che si accasciava di lato retta appena da un fascio di muscoli scoperti. Il corpo che affondava nella melma, che subito lo oscurava come una coperta puzzolente. 

La reazione di Rebecca non s'è fatta attendere. Non sono in grado di stabilire se abbia capito come stavano le cose, cioè che quel proiettile era indirizzato a lei, che sarebbe stata la sua testa a dover saltare invece che quella del cane; o se invece abbia urlato per la follia della scena, per quella violenza febbricitante e del tutto immotivata. Prima il serbatoio della motocicletta, il fuoco purificatore, le ceneri che ancora svolazzavano per il mio giardino. Adesso quella povera bestia mutilata, lo sguardo vitreo che perlustrava il cielo rannuvolato. 

“Rebecca” ho detto, e avrei voluto concludere la frase, infilare qualcosa dopo il suo nome, ma non mi veniva in mente niente, assolutamente niente. Mi ha guardato terrorizzata, gli occhi tanto strabuzzati che per un momento ho pensato le sarebbero rotolati fuori dalle orbite. Ho abbassato il fucile e mi sono proteso verso di lei. Volevo prenderla, abbracciarla, stringerla al mio corpo scosso dai brividi. Ma lei è stata più veloce, si è voltata ed è sparita gridando come un'ossessa tra le fronde.

 

Il manto di Briciola era rosso e marrone, e cominciava a puzzare. Mentre il proiettile gli strappava buona parte della testa, il suo corpo aveva perso il controllo degli sfinteri, e adesso la pozzanghera di melma nella quale giaceva mandava un fetore di roba lurida e putrefatta. Mi sono accasciato di fronte a lui perché non sapevo che altro fare. Tutto era immobile attorno a me, il cielo color piombo, le vette frastagliate degli abeti, l'odore resinoso delle cortecce che l'aria fresca della collina spingeva di tanto in tanto verso di me. Ho guardato quel corpo morto e striminzito, e sono scoppiato in lacrime. Cosa sto diventando? In quale mostro terribile mi sono trasformato? 

Mi ha assalito una paura cieca: una cosa orribile, piena di giunture e deformità, una pelle grigiastra e porosa nella quale mi è sembrato di affondare. Ho sentito come un sipario calare nella mia testa, e una tenebra densa più del cemento che mandava tutto quanto in blocco. Mi sono tolto uno scarpone e ho imbracciato il fucile dalla parte sbagliata, la sua canna calda infilata nella mia bocca, appena inclinata verso la parte bassa del palato, il calcio piantato nell'erba infradiciata su cui ero seduto. A quel punto ho infilato l'alluce nel paragrilletto, e mi sono detto che non avrei sentito nulla proprio come non avrebbe sentito nulla nemmeno Rebecca. 

Sono rimasto immobile in quella posizione ridicola per almeno cinque minuti, il piede che tremava, le mani sudaticce che si facevano di pasta frolla. Ho pensato a mille cose, una più brutta dell'altra, una più triste della successiva. E naturalmente non ce l'ho fatta. Che ne sarebbe stato di lei? Chi se ne sarebbe preso cura? Sarebbe stato come ucciderla lentamente, giorno dopo giorno, senza nemmeno donarle la consapevolezza della mia crudeltà. Mi sono rimesso lo scarpone e ho trascinato Briciola per la zampa. Giù per il declivio, verso casa.

L'ho seppellito in una piccola fossa dai bordi cedevoli. La terra era piena di vermi e i merli stavano assiepati sui rami del vecchio olmo in attesa dell'occasione propizia. Volevo ornare la tomba con una croce rudimentale, ma non avevo niente di adatto. 

Lì accanto c'erano ancora i resti carbonizzati della motoretta. Era come guardare lo scheletro di un animale strano, un dinosauro appartenuto a qualche antica era industriale. I raggi di una ruota rosa dalle fiamme oscillavano placidi nella brezza della sera. Il fuoco aveva consumato lo pneumatico, che adesso assomigliava ai filamenti di una gomma da masticare.

Di 'Becca nessuna traccia. La casa è vuota e piena di sospiri. Mi sono svegliato a mezzanotte e ho sentito un infisso sbattere. Pensavo fosse tornata, ma poi mi sono ricordato di aver lasciato la finestra del bagno aperta, e da quel versante soffiano le correnti più fredde. 

 

8 ottobre

 

Per tutta la notte sono stato preda degli incubi. Ho visto Rebecca che masticava funghi velenosi, e la sua bocca si riempiva di piaghe pestilenziali. Ho sognato Briciola che si scuoteva nella morbida terra del giardino, le carni infestate di insetti e formiche, quel suo sguardo malinconico che mi domandava delucidazioni. Avevo il viso bagnato.

Un uomo deve scendere a patti con la propria coscienza. Fa i conti con il passato, e quindi li fa con se stesso. Impara a distinguere gli errori dalle leggerezze, i peccati mortali da quelli veniali, le colpe imperdonabili dai capricci passeggeri. Per me non è stato così. Mi sono guardato allo specchio per tutta la mattina, ma dalla sua superficie perfettamente levigata non è uscito altro che uno sguardo senza espressione. Non ero io a guardarmi, ma qualcun altro: un'ombra, un fantasma, una specie di immagine che fingeva di essere me stesso indossando la mia pelle e fissandomi dal fondo delle mie pupille. 

Mi sono seduto in veranda con una bottiglia di grappa stretta in mano. E ho aspettato. Ho aspettato fino all'imbrunire. Ho detto: se morirà, sarà fatta la volontà di Dio. Se non morirà, sarà fatta la volontà di Dio. Da quel momento, niente dipende più da me. 

Era piuttosto imbronciata, ma non come un bambino che deve rinunciare alla sua caramella, ma come un cane abbandonato in mezzo a una strada che d'improvviso ritrova il suo padrone. Ti guarda con quella perplessità che non riuscirai mai a scacciarti dalla memoria, non sa se fidarsi ancora di te e trotterellarti dietro, o restarsene lì a distanza di sicurezza. 

Oreste lo sa come vanno queste cose, e non ha detto niente. Apprezzo sempre quel suo silenzio, anche se a volte fa più male delle parole. 

Avevo le braccia spalancate, e le facevo cenno di avvicinarsi. Mi scrutava con attenzione, il labbro le tremava. Per un momento nessuno si è mosso, Oreste sul suo trattore, io fermo sulla veranda, lei asserragliata dietro i montanti arrugginiti del rimorchio. Non avevo nulla da dirle. È stato tutto quanto talmente patetico. Alla fine si è decisa, e il mio cuore si è fermato per qualche momento. 

Era irriconoscibile: denutrita dalle piogge e dissanguata dal freddo della notte. Il suo vestito era tutto strappato, ne indossava soltanto pochi brandelli che sventolavano come drappi di una guerra persa. Un seno schifoso le penzolava fino all'ombelico, di un altro le lacerazioni della stoffa lasciavano intravedere il marrone del capezzolo. Le gambe erano gonfie, i piedi scalzi le cascavano nella fanghiglia. 

“Ti voglio bene, papà” ha detto. Allora è tornata a casa.

 

Marco Marchetti


P.S.: le foto che illustrano il racconto non sono nostre né originali, sono state proposte dall'autore per evocare il mood della storia.

Last modified on Monday, 19 October 2015 13:28
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