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Blood - delitto cerca castigo

Written by  02 Jun 2013
Published in Cinema
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Il secondo film di Nick Murphy è un grande giallo dostoevskjiano, in cui la violenza su un indiziato innocente innesca un drammatico cammino di espiazione. Profonde psicologie come sempre meno se ne vedono sullo schermo. In sala dal 27 giugno.

 


 


Si diceva nella recensione a Stoker che la nebulosità di alcune motivazioni psicologiche dei personaggi rende più difficile l’empatia dello spettatore con il noir di Chan-wook e la tragedia dei suoi personaggi. Eccoci invece, con Blood dell’assai meno celebrato Nick Murphy (finora regista del Mistero di Rookford, che a noi è piaciuto ma sembra solo a noi) di fronte a un superbo esempio di giallo psicologico in cui nulla è lasciato nell’ombra e proprio la profondità drammatica delle psicologie dei tre personaggi principali (nella foto qui a destra) ci trascina inesorabilmente fino in fondo alla storia, con pieno coinvolgimento e col minimo dispendio di effetti speciali e “figate” di regia.

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Quel che vi sveliamo della trama circola già in rete, quindi immaginiamo di non infliggervi un grave spoiler: due fratelli, Joe (Paul Bettany) e Chris (Stephen Graham, visto di recente nel pure bello Le Paludi della Morte della Mann figlia) sono investigatori nello stesso distretto di polizia di Liverpool, e impegnati in un caso davvero brutto: una ragazzina massacrata da un folle. Son cose da cronaca nera quotidiana ma il film (primo merito) ce ne fa sentire tutto lo strazio.
Joe ha una figlia di poco più grande, si sente in colpa per un passato caso simile rimasto irrisolto, per di più subisce le rampogne del padre, un tempo capo dello stesso distretto e ora sulla china della demenza senile, che rimprovera i suoi eredi di non saper più usare i metodi spicci con cui ai suoi tempi si facevano cantare i colpevoli senza tante storie.

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Joe e Chris (insieme nel desolato scenario della costa di Liverpool qui a sinistra) peraltro incastrano subito un pregiudicato per molestie, il tipo che ha proprio tutti gli indizi contro. Ma, mancando le prove certe, di fronte all’impossibilità di trattenerlo in galera, si lasciano prendere la mano da quei vecchi mitici metodi. Sarà che sono sotto pressione o che i tempi son cambiati o che la realtà non somiglia mai ai racconti degli anziani, ma passano il segno e ci scappa il morto.

Purtroppo il morto risulta pure innocente: ci troviamo in una fattispecie, per quanto psicologicamente credibile e immaginiamo statisticamente non rara (di innocenti pestati a morte dalla polizia ce n’è anche nella cronaca italiana), assai originale nel mondo del cinema, fin troppo affollato di sbirri “duri ma giusti” che, se eccedono un po’ il fair play della legalità, lo fanno solo con ottime motivazioni e a fin di bene.

Potremmo in fondo considerarlo l’estremo opposto del dilemma morale dell’Infernale Quinlan: lo sbirro bastardo di Orson Welles usava metodi inumani ma ci beccava; e noi? Stavamo dalla parte del fine (raggiunto) o dei mezzi (sbagliati)? Qui i metodi sbagliati colpiscono pure l’uomo sbagliato: che fare? Insabbiare tutto, conclude Joe: chi cercherà un inutile svitato pedofilo e maniaco religioso?

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Eh no, è proprio qui che il film si fa originale nel suo elementare realismo: anche uno svitato ha una madre, qualcuno l’ha visto uscire di chiesa, è stato ripreso dalle onnipresenti videocamere di sicurezza della nostra società: non si può farlo sparire nel nulla, neanche se si è poliziotti e si utilizzano il potere e i sotterfugi che il mestiere consente.

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È a questo punto che l’indagine si fa dostoevskjiana, come dicevamo nell’occhiello: perché l’individuazione del vero colpevole, un banalissimo teppista di quartiere irresponsabile, in fin dei conti scolora miseramente a fronte del vero, questo sì tragico, conflitto che travaglia i due sbirri colpevoli di crimine non meno grave, costretti a tentare di depistare sempre più malamente un’indagine che inevitabilmente conduce verso di loro.

Perché – come ci mostrava l’autore di Delitto e Castigo – la colpa non può fare a meno di cercare la propria punizione, doloroso ma inesorabile viatico per l’espiazione del male compiuto.

Film con pochi atout per sfondare in un mercato saturo di botti, auto che esplodono e fracasso, ma che invece merita la più attenta e religiosa visione, perché – oltre che intrinsecamente, pacatamente molto bello – appartenente a una schiatta che sembra in via di estinzione: il film di genere che, solo attraverso solidità di scrittura e profondità di scavo nei caratteri, raggiunge il massimo del coinvolgimento dello spettatore; e, in un certo senso, quella catarsi cercata dalla tragedia classica (che citavamo proprio per Park Chan-wook), ossia farci sentire il peso morale del male compiuto, lo sporco del delitto, che ti copre quando scegli di uscire dal nomos e farti giudice e boia in un colpo solo.

Prodotto sicuramente a basso costo, Blood è uno di quei film che ti fan domandare: ma perché in Italia non si riesce mai a fare un giallo così?


Vedetelo assolutamente. Non trovatevi a dovervi pentire anche voi.



Mario G

Last modified on Sunday, 02 June 2013 20:25
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