Print this page

INLAND EMPIRE - la mente oltre la mente

Written by  06 Mar 2007
Published in Cinema
Read 9156 times

Sotto i riflettori del film che si gira, si ricorda, si proietta, si srotola dentro il film,
sembra agitarsi la coscienza di una mente intermittente.
Una mente che non si limita a pensare, ma vive una domanda. Una delle domande ultime, e quindi una domanda metafisica.

La domanda recita più o meno così: cosa sarebbe l'"io" se il tempo non fosse la serie di ieri-oggi-domani che con la loro linearità assicurano alla mente il dominio sul tempo?
Il dominio sul tempo ha un suo lato oscuro, l'irreversibilità delle storie, degli amori, della vita.
Il lato oscuro ci spaventa e ci fa soffrire, ma lo scorrere lineare del tempo ci rassicura nel suo essere misurabile, classificabile, condivisibile con altri umani.
Questo tempo assieme spietato e manipolabile è anzi il vero e proprio orizzonte di senso del mondo conosciuto, di ciò che chiamiamo "umano" (basti pensare all'essere-per-la-morte di Heidegger e a tanta filosofia del 900').
Che ne é di una coscienza che, dimentica di questo, si aggira sperduta in un tempo che che ha perso i suoi connotati, le sue cicatrici e i suoi tratti pertinenti, un tempo che può essere mostrato, messo in scena solo a stento, perché metterlo in scena è già contraddirlo e perché posso alludervi solo per sottrazione?

Il vasto deserto che si schiude sotto i piedi di chi si addentra in questa domanda è Inland Empire, un mondo popolato da "fantasmi", da "proiezioni", da "personaggi" e "simulacri di corpi".
E' il vuoto più affilato di un diamante attorno a cui tutto ruota, il tempio circolare in vui vita vissuta e vita immaginata, vite passate e vite future, vite artificiali e vite di altri, si sciolgono in un'unico stream of consciousness che allude a una dimensione della coscienza ben più vasta di quella in cui siamo abituati a muoverci.

In questo flusso il "drama" umano si consuma (perennemente ritornante) nella tragedia dell'appartenersi/disappartenersi, e non a caso si focalizza nella relazione amorosa, vero e proprio archetipo di ogni relazione.
L'ossessione lynchiana del tradimento (vero o presunto) è ciò che scatena il desiderio di vendetta, la volontà di uccidere la donna/l'uomo amata/o perché si sono sottratti al nostro controllo/possesso e non vogliono più appartenerci (basti pensare a Strade Perdute o a Mulholland Drive ma anche alla follia omicida sventata all'ultimo secondo di Blue Velvet o di Cuore selvaggio).E' da questo nucleo che si dipanano i molti fili che intrecciano la storia, triangoli che triangolano con altri triangoli all'infinito.

L'omicidio è sempre in Lynch l'incapacità di accettare il sottrarsi dell'altro, che viene in maniera maniacale riportato al tradimento, nell'illusoria convinzione che l'amore di per sé sia immutabile e che solo la seduzione operata dall'altro/a o la vocazione puttanesca dell'amata/o sia la causa dell'inaspettato allontanamento.
Ed è proprio questa incapacità di accettare il cambiamento,la fine di qualcosa, la morte in ultima istanza, che Inland Empire mette in scena in tutte le salse, stigmatizzata nella Sit-com metafisica degli uomini-coniglio racchiusi nella stanza giocattolo e raffigurata nell'orbita ellittica di Laura Dern, che sembra attraversare (o essere attraversata) da tutti e tre i poli del triangolo amoroso.


Laura è Niki, l'attrice che recita la parte di una moglie che tradisce il marito e viene da questi uccisa, ma è anche l'eco dell'attrice cecoslovacca che ha precedentemente vestito i panni della protagonista di questo film maledetto e che è incorsa nella stessa sorte del personaggio.
E proprio quando anche Niki sembra sul punto di compiere lo stesso fatale destino (si innamora dell'attore e ci va a letto, aspettando che giunga il marito a ucciderla), ecco che accade un'altra trasformazione, e Niki diventa Susan Blue, una donna che è invece abbandonata/tradita dal marito deciso a partire con il "Circo" guidato da un Clown che Susan si rappresenta come un uomo dai poteri "ipnotici", un uomo che porge le armi dell'omicidio/suicidio (un cacciavite che va di mano in mano), un uomo amico del proiezionista/carceriere/poliziotto a cui Laura si confesserà in cerca di aiuto.
E'proprio qui che Susan si trasformerà nell'"altra donna", nell'amante, inseguita da una Julia Ormond, moglie tradita e assassina, che la ucciderà proprio con il cacciavite che Laura stessa ha in mano e che il Clown le aveva consegnato.

Alla fine di questa parabola che culmina con la morte, diveniamo consapevoli del fatto che la legge traviata dal tango insaguinato della gelosia, che preferisce uccidere ciò che non può più possedere, è vittima di un'illusione metafisica di appartenenza. L'io che crede che l'altro non gli appartenga più è l'io che crede che l'altro gli sia davvero "appartenuto" . Ed è anche l'io che crede di appartenersi. La devastante scoperta che l'io stesso non si appartiene, l'inquietante convivenza tra Susan e le baccanti della mente, è la chiave per iniziare a disinnescare la follia omicida, per fermare le mani che ci passano i coltelli e le pistole per uccidere ciò che più amiamo.
Il progressus ad infinitum per cui l'altro non appartiene a noi ma un altro che a sua volta appartiene a un altro che appartiene a un altro ancora e così via, cambia radicalmente segno nel momento in cui accettiamo il fatto che noi stessi non apparteniamo a noi stessi ma a qualcosa di più vasto.

La messa in scena catartica della morte di Laura (ennesimo film nel film, simulazione nella simulazione, film di cui Susan Blue è il personaggio principale recitato ancora una volta da Niki?) allude alla necessità di un accettare il cambiamento/la morte per disattivare il meccanismo assassino.
"Non è nulla, tesoro, stai solo morendo", recita la barbona mentre le accende davanti agli occhi un accendino, invitandola a guardare la luce, perché nella luce noi ci ricordiamo della nostra vera origine, nella luce riscopriamo la nostra vera appartenenza, che non è mai un'appartenere a questo o a quello, tanto meno a se stessi, ma un appartenere alla luce che ci crea (proietta) sulla scena del mondo fatto di fango e tenebra.
Evocazione di un'anima disincarnata, in un perenne oblio di se stessa, perché la mente del "personaggio" non ha mai un corpo definitivo a cui far ritorno e lo straziante ritornello che ripete sempre la stessa storia la fa vagare come un fantasma da un universo all'altro, da una vita all'altra.
E così si salta nello zapping allucinato della mente (del personaggio) dall'attrice cecoslovacca a Niki a Susan alla donna-coniglio a Laura Dern stessa alla splendida Laura Harring (la cui storia personale ha ispirato il personaggio di Niki).
Perchè se un corpo può incarnare tante anime (l'attore) è vero anche che la anima (il personaggio) se ne va migrando da un corpo all'altro, dimenticando e ricordando a sprazzi le sue vite anteriori.

L'equazione irrazionale di Inland Empire può riassumersi così:
un corpo può indossare tante anime, ma la stessa anima può indossare molti corpi.
Perché scardinare l'identità del tempo, della storia lineare, significa scardinare l'identità dell'"io", ma anche l'identità del corpo.
Perché se il tempo non è direzionale, se il ricordo non è più il metro del mio continuo, giornaliero riagganciarmi a me stesso, cosa mi fa credere ogni mattina che mi sveglio che quello che si sta svegliando è lo stesso che si è addormentato la notte prima, lo stesso che adesso con molta probabilità come ogni mattina si laverà la faccia, farà colazione, prenderà l'autobus, andrà al lavoro?
Perché se questa "consecutio" non esiste più, perché è dimenticata o perché è cancellata da una rivelazione trascendente, "chi" vive i frammenti di tempo che accadono? "Chi" li vede accadere? Che relazione c'è tra chi vive e chi vede?

Solo quando c'è una coincidenza, uno specchiarsi amorevole, di chi vede e di chi è visto lì accade la coscienza.
La coscienza nel suo grado zero è un volto che si bacia allo specchio.

Dopo la sua morte "fittiva" Laura Dern-Niki-Susan Blue si sveglia come in trance, si dirige in un cinema, vede se stessa sullo schermo arrivare nel cinema, si addentra nei cunicoli labirintici dietro le quinte, spara al proiezionista pallottole di luce, varca la scena metafisica (ormai deserta degli uomini-coniglio) e giunge alla camera d'albergo dove non c'è più la donna con l'amante, ma la spettatrice che ha seguito tutto il film piangendo.
Laura e la spettatrice si baciano e questo bacio liberatorio fa sì che la spettatrice possa infine uscire dalla stanza che la teneva prigioniera, dalla camera oscura attraverso cui guardava il mondo per tornare a riabbracciare il marito e il figlio (era lei la "vera" Susan Blue la cui storia "mentale" si srotolava sullo schermo?) e tornare così a "casa".

Ritornare a casa, ritornare al luogo di un'origine, è la grande nostalgia della metafisica. Metafisica che in Lynch è sempre ambigua e bifronte.
Perché la casa a cui lo spettatore torna è il mondo fuori dell'opera, l'Outland Empire, quello verso cui sembra tornare l'estenuante carrellata all'indietro del film che si ritrae dalla scena lentamente, quasi come la carrellata che chiude Lo Specchio di Tarkoskji in cui la coscienza che è tornata al momento della sua origine, al luogo del suo concepimento, viene rimbalzata indietro e si addentra/torna nel bosco della vita, mentre si fa sera.

Ma la casa è anche la casa da cui ci allontaniamo, il tempio circolare ottagonale, la casa del film, dove personaggi reali e fittizi convivono, dove le cose entrano ed escono dalla scena del divenire, dove la danza sfrenata delle ballerine sulle note di una canzone scritta e cantata dallo stesso Lynch sulle labbra in playback di una giovane donna di colore, risuona un urlo di gioia lanciato verso il futuro.
Lo spettatore appartiene anche a questa casa, come gli appartiene Lynch stesso.
Perché la casa dove il film si genera allude al luogo misterioso e invisibile dove si genera la vita, prima e dopo la coscienza della vita.

In questo movimento ambiguo (circolo e allontamento) eternità e tempo sembrano riconciliati, così come sembrano riconciliati al di là di ogni barriera lo stesso Lynch e lo spettatore in sala, presenti qui anche loro per sottrazione.
Perché il film non è solo una pellicola proiettata vista dalla coscienza di uno spettatore che si crede ingenuamente fuori scena.
Perché come ci racconta il bacio tra il personaggio-attore e la spettatrice-attrice, la convergenza tra vivente e spettante è la coscienza stessa della vita. E' la mente "umana", ma oltre la mente umana c'è un'altra mente, oltre la vita umana, c'è un altra vita.

L'accesso alla mente oltre la mente è sempre a un passo da noi, che sia l'abisso dionisiaco che si apre sotto le crepe del mondo o la mente universale.
Perché noi umani così racchiusi alla coscienza della vita come singolarità e individuazione, siamo forse a nostra volta solo il sogno o il ricordo di un'altra mente. Così come il film lascia una traccia, seppure fantasmatica, nella nostra mente.

E' la luce, il cinema, l'arte a disattivare le mani assassine, le mani che vogliono cancellare quello che è stato perché non accettano che permanga solo come traccia, sogno, ricordo pur destinato un giorno a essere rigettato a riva dai flutti del tempo.
Ma all'arte basta questo.
Perché infondo cos'è l'eternità se non lasciare una traccia, per quanto rinnegata, traviata, disprezzata o rimossa nella mente di un altro (o dell'Altro?)

Last modified on Wednesday, 07 March 2007 23:05
Rate this item
(1 Vote)
Super User

Lo staff posthuman!

Website: www.posthuman.it
Website Security Test