Di William-l’Esorcista-Friedkin, oltre all’altro immortale classico, Il Braccio Violento della Legge, in tempi recenti avevo molto apprezzato lo sconosciutissimo (ma si trova in dvd italiano) Bug, con Ashley Judd, inquietantissima discesa a capofitto negli abissi della follia di una cameriera e di un reduce dal Golfo (QUI un clip significativo). L’ambientazione era anche lì un indefinito Sud degli Stati Uniti, polveroso e distante anni luce dal “sogno americano”. Ora scopro che anche quel film era scritto da Tracy Letts, pluripremiato autore teatrale, responsabile anche della sceneggiatura del nuovo Killer Joe, tratto appunto da una sua piéce.
Visto il trailer e letto qualcosa in rete, sono andato alla proiezione carico di attese e, devo dire, fino praticamente alla fine non ho avuto che conferme. Teso e basato su dialoghi asciutti e taglienti, il film del veterano Friedkin fila come un treno nel tunnel buio dell’animo umano più degradato, servito anche da un eccellente quartetto di interpreti: Matthew Mcconaughey, il killer Joe del titolo, sbirro di paese dedito all’assassinio su commissione per arrotondare, gelido e ‘professionista’; Emile Hirsch è Chris, giovane spacciatore nei guai, pronto a far ammazzare la madre per incassarne l’asicurazione (foto qui a destra col padre); Thomas Haden Church è Ansel, suo padre, un bifolco di paese rozzo e grezzo, pronto a farsi convincere dal figlio nella speranza di godersi la sua fetta con la nuova moglie Sharla – la Gina Gershon di Bound dei Watchowsky, ottima un nuovo ruolo torbido – fedifraga e dall’integrità non superiore al resto della famiglia (a sinistra con Mcconaughey e Church).
Famiglia in cui l’unica anima candida è (o sembra) la sorellina Dottie – la bravissima Juno Temple di Juno (sotto a destra nel drammatico finale) – agnello sacrificale da immolare al pedofilo Joe (nel film lei dichiara 12 anni, ma saranno poi veri?) in cambio di un anticipo sul bottino che i gaglioffi non hanno a disposizione.
Come immaginate, niente fila per il verso giusto e una nefandezza tira l’altra, in un crescendo di squallori degno del miglior Joe R. Lansdale e in un’atmosfera torrida che cinematograficamente ricorderebbe da un lato The Killer Inside Me di Winterbottom, il vero capolavoro noir americano uscito l’anno scorso (recuperatelo assolutamente) a livello di ambientazione (e di abiezione dello sbirro protagonista), dall’altro Onora il padre e la madre (Before the Devil Knows You're Dead, 2007) di Lumet, una tragedia greca in salsa noir familiare in cui – dopo che si è accettato di varcare la linea d’ombra del crimine – la catastrofé si compone inesorabile un gradino dopo l’altro.Non mi addentro oltre nella trama per ovvi motivi, vale la pena di scoprire da sé i numerosi colpi di scena e ribaltamenti di fronte che riserva; anche se purtroppo – proprio sul finale (che sul confronto definitivo viene lasciato aperto) – l’impressione è che la tensione venga diluita sempre più nella direzione di una black comedy grottesco-pulp che si allontana inevitabilmente dalla drammaticità di tutti i nobili riferimenti citati. Che vorrebbe forse strizzare l’occhio alla cinica ironia tarantiniana di gran moda? Probabile. Quel che rimane però è uno smarrimento del filo narrativo, una tragedia mancata in cui il Gran Teatro dell’Abiezione rimane privo di motivazione etica.
In parole povere, Friedkin mette in scena uno sbirro assassino (nell'esercizio delle sue legali funzioni qui a sinistra), una famiglia degradata e degenerata, un’adolescente sfruttata ma meno ingenua di quanto sembrerebbe all’inizio… per dirci cosa? Che la Giustizia non esiste? Che la società americana è marcia e degenerata alle fondamenta? Che questo mondo ormai non è più un “paese per giovani”? che nulla nella vita ha senso e i “valori” non esistono in nessun luogo? O tutto ciò insieme, o di tutto un po’? Un finale (qui a destra l'attimo prima dell'ultimo atto) che ci lascia a bocca aperta quando i titoli di coda partono su un grilletto, che forse verrà tirato o forse no, lasciandoci liberi di immaginare il 'nostro' finale ma impedendoci di tirare le conclusioni su ciò che regista (e sceneggiatore) volessero dire veramente con questo girone infernale dello squallore.Peccato. La confezione rimane comunque di altissimo livello e vale la visione. Friedkin ha coraggio da vendere: di non arrestarsi di fronte al politically correct e alla censura di mercato, come spesso fanno molti sedicenti noir ‘pseudomaledetti’ hollywoodiani; di non temere i nudi sguaiati di mamma Sharla come quelli più acerbi della giovane Dottie; di non arrestarsi davanti a una scena di sesso (pedofilo dunque?) Joe-Dottie e persino di lasciarci capire che a lei nemmeno spiace la cosa. Insomma, di non negarci nulla della palude morale in cui annaspano i personaggi, restituendo il crimine a un ambiente realisticamente privo di eroi e abitato da ominidi miseri, e pure piuttosto stupidi.
Ancora, di farci vedere i loro corpi sfatti e pesti: ad esempio, fate caso a quando Chris le busca dai creditori (qui a sinistra); nessuno fa una piroetta in aria al ralenti, sparando all'indietro ed evitando pallottole o pugni. Tutto è banale e prosaico: due sgherri grossi il doppio di te ti menano di santa ragione e tu... ti rannicchi e le prendi, perché nella realtà altro non puoi fare. E di questi tempi un realismo così nel cinema americano è quasi eroico.Quel che però difetta, come si diceva, è la “morale dello sguardo”, il senso ultimo del disperato affresco.
Mario G
(P.S.: le foto riportate non seguono l'andamento cronologico delle scene del film)