Temendo che la distribuzione natalizia “deglutisse” un titolo alieno come il nuovo Cronenberg nel giro di pochi giorni, son corso a vederlo in sala appena possibile: per nulla al mondo avrei accettato di perdere il nuovo lavoro del Regista Postumano per eccellenza, vi pare?!
E bene ho fatto, perché mi sono assicurato il nuovo pregevole capitolo di una ricerca coerente e matura con pochi eguali nel cinema contemporaneo: una ricerca che già col precedente History of Violence era approdata al genere noir, nelle cui ombre vive anche questa nuova storia di sopraffazioni e violenze della mafia russa nella Londra del presente globalizzato, in cui corpi e identità sono “mostruosamente” manipolabili, anche senza bisogno di ricorrere ad innesti cibernetici o esperimenti genetici.
Già, quella fase sembra ormai definitivamente chiusa per Cronenberg. In fondo, probabilmente lo è sin dai tempi de La Mosca. Già da Videodrome (hey, all’erta! Il capolavoro dell’82 esce finalmente in dvd italiano per Universal il 6 gennaio!!! Ci torneremo su) si era aperta una nuova fase, che potremmo definire dell’orrore psicologico, in cui lo sguardo inquieto del regista si sposta dal corpo umano ai suoi rapporti con la società e i media (lo stesso Videodrome, eXistenz), l’identità sessuale e la sua definizione sociale (M. Butterfly, Crash), per finire con i gorghi della nostra semplice mente, drogata (Inseparabili, Il Pasto Nudo) o meno (Spider) che sia.
La ricerca di Cronenberg si è fatta sempre più affilata, a dispetto dell’apparente maggior facilità di lettura narrativa del suo cinema più recente: come dire che, per tirar fuori i mostri prodotti (sempre e comunque) dalla mente umana, il regista ha rinunciato via via alle ambientazioni futuribili, agli esperimenti scientifici deviati, poi ai media e alle alterazioni chimiche della realtà, per arrivare direttamente al nocciolo del problema. L’Uomo. Puro e semplice, quindi ancor più terribile: insomma, nell’etica dell’orrore del Cronenberg attuale non occorre più alcuna deformazione esogena perché la belva umana riesca ad esprimere la sua natura selvaggia e spietata a danno dei propri simili.
Ben lungi dal “diluire” il proprio discorso come qualcuno ha superficialmente lasciato intendere, pertanto, il grande David lo va anzi radicalizzando: i mostri siamo noi, al naturale e anche senza additivi. Non occorre che gli alieni vengano da altri mondi, basta che arrivino da oltre cortina, da un’altra cultura, un’altra lingua, un’altra storia, e perdono la loro identità umana, la loro crudeltà non ci riguarda, le loro vittime ci fan meno impressione. La loro lingua ci è estranea, come i tatuaggi onnipresenti nel film, che esprimono l’appartenenza alla tribù, l’accettazione totale e incondizionata delle sue regole barbariche (vedi foto qui a destra).
Che, peraltro, se avete visto non molti giorni fa l’Oliver Twist di Polanski passato in tv, avrete forse notato anche voi che erano (guarda un po’) molto simili ai codici barbari che vigevano pure nella nostra “civile” società mica tanto tempo fa, quando la miseria degli immigrati d’oggi era quella degli orfanelli indigeni.
Bene, ma torniamo al film: chiarito il ruolo del genere noir nell’evoluzione del sistema filosofico cronenberghiano, io l’ho trovato complessivamente anche più riuscito e completo del precedente (pur valido) History of Violence. Il cui punto debole a mio parere stava nella risoluzione finale della trama, attraverso un confronto buono-cattivi che faceva scivolare pericolosamente verso l’action-all’americana l’acuta analisi della degenerazione di tutti i rapporti (sociali, familiari) del protagonista, in seguito al ritorno della violenza che questi aveva cercato di rimuovere dalla propria vita sparendo.
Ne La Promessa dell’Assassino, invece, la vittoria di un Mortensen sempre più “buono-ma-sporco” arriva ancor più sofferta, attraverso un combattimento (quello nella sauna, già di diritto nell’antologia del cinema della violenza) conquistata percepibilmente, fisicamente a caro prezzo.
Lasciamo in coda le note sulla pura tecnica filmica, al solito sublime, come si può intuire già dai pareri per una volta sostanzialmente concordi della critica “ufficiale” e di quella “alternativa” di una rivista come Nocturno o di un sito specializzato nell'horror come ad esempio Splattercontainer.
Non ci dilungheremo dunque sulla densità espressionista dei chiaroscuri della cupa fotografia di Peter Suschitzky (già al fianco del Maestro nei precedenti due film, History e Spider) – molto buio e toni freddi e metallici negli esterni – sulle musiche del fidatissimo Howard Shore, cui nell’ultima fase del cinema-Cronenberg è stato concesso il lusso della tonalità dopo anni di borborigmi industriali (!), né sull’eccellente misura di tutti gli interpreti, dal gigione Cassel (nella foto qui a fianco, l'irruento figlio del boss, in realtà un perdente ma con un barlume d’umanità fra i bruti), qui ben controllato, al sobrio e pacioso Armin Mueller-Stahl (vero assassino dal volto umano), fino al sempre più bravo e asciutto Mortensen, ormai una sorta di novello Clint Eastwood nelle mani di Cronenberg.
Mi limiterò invece a riportarvi l’effetto più intenso e duraturo che ci lascia la visione del film: quello di una tristezza profonda per la condizione umana, della percezione di una sporcizia morale globale (prima ancora che globalizzata), che ti rimane addosso ore dopo la fine dei titoli di coda…
Cosa c’è di strano? Che quel genio di Cronenberg è riuscito ad inocularci quella sensazione anche attraverso un film dall’apparente ‘lieto fine’, in cui il cattivo viene punito e il buono trionfa!
Buona visione e buon 2008 a tutti voi postumani!
Ci si ritrova presto per riparlare di Videodrome.
Mario