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Quella Casa Nel Bosco dei cliché

Written by  19 May 2012
Published in Cinema
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In sala dal 18 maggio, la Casa al Cubo di Goddard e Wheddon non spaventa, piuttosto irrita un po' con un pastiche postmoderno furbetto e inutilmente ipertrofico.

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Quella Casa Nel Bosco (trailer QUI) era fortemente atteso come la "new horror thing": firmato dall'aurea coppia del serial americano Drew Goddard (regista e cosceneggiatore) e Joss Whedon (sceneggiatore), già al timone di corazzate come Buffy, Lost, l'originale serial s/f Dollhouse e il film Cloverfield, l'operazione alimentava l'attesa di molteplici piani narrativi e spiazzanti sorprese, cui allude già la (bellissima) locandina che vedete in apertura, costruita come una specie di "casa di Rubik", di cui ci veniva attentamente tenuto segreto il più della trama, per non guastarci le sorprese suddette.

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Nocturno presentava il film sul numero di aprile, con un articolo a firma di Angelo Iocola che parlava di "opera metanarrativa, sunto e sberleffo dei manuali di regia del terrore".
L'amico Marco Marchetti, sul sito della rivista, lo stroncava poco dopo come una meringa senza panna, definendolo privo di reali sorprese, vuoi narrative vuoi stilistiche. Ma che la pellicola sia considerata un peso massimo della stagione lo conferma il fatto che, dopo qualche altro giorno, lo stesso sito ci ritorna con una recensione firmata Francesco Del Grosso, che corregge il tiro giubilando allo "spettacolo pirotecnico da non perdere assolutamente" (mentre la stroncatura sparisce nel nulla misteriosamente diventando illeggibile).

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Insomma, siamo andati a verificare di persona. E purtroppo la nostra impressione si allinea decisamente con quella del Marchetti: l'attesa stratificazione metanarrativa si rivela infatti nulla più che una postmoderna fighetteria che combina un mucchio di spunti da altrettanti film cult, coll'ostentato desiderio di spiazzarci ad ogni scena dicendoci "te l'aspettavi, vero? E invece nisba, non è vero niente, è tutto un gioco, cosa credi?".
Ma il gioco diverte poco e spaventa ancor meno, proprio perché sa tanto di studiato a tavolino.

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In pratica, ci troviamo di fronte a un intreccio totalmente derivato da La Casa di Raimi, che peraltro già 30 anni fa giocava ad ironizzare sui cliché del suo stesso impianto narrativo, epigono di una lunga tradizione nella narrativa de paura (le case infestate, per l'appunto, cui lo stesso Nocturno aveva già dedicato un ottimo dossier sul n. 104 esattamente un anno fa, con contributi di Giuseppe Lippi, Danilo Arona e stefano Di Marino).

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Goddard & Wheddon devono per forza alzare il tiro, quindi scelgono di dare al pubblico quello che si aspetta da loro (i continui twist di trama) e innestano sul plot una meccanica alla Truman Show: il quintetto di bambocci carucci e scioccherelli in gita nello sperduto chalet è spiato da una misteriosa organizzazione segreta che gioca con loro al gatto e al topo, con modalità e per motivi che però si capiscono fin troppo in fretta.

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Questo livello della trama ci offre alcune situazioni ironicamente gustose (le scommesse su come moriranno i nostri non-eroi), ma i due enfant gaté della tv USA vogliono strafare, quindi lo fanno esplodere con un lungo gran finale, ambientato in una scenografia alla Cube, che finisce per ridicolizzare il tutto buttando in pentola alla rinfusa un'orgia di citazioni da mezza storia del genere: Hellraiser, It, The Strangers, The Grudge, un po' di zombie, una spruzzata di Lovecraft, ma senza alcuna reale motivazione o tematizzazione.

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Ora, è noto che il sottoscrito non sia un fan dell'horror grottesco, ma nel dubbio anche il mio compagno di serata - Pier Marzano, collega opinionista radio di Moshpit - manifesta la sua disapprovazione complessiva: un bello splatter della Troma sarebbe almeno stato più sinceramente divertente.

In conclusione, si conferma la dura realtà: non basta smentire la logica della trama ogni 3' per mettere in piedi un delirio alla Lynch, come non basta citacchiare a destra e a manca mostrando superiore ironia verso la materia trattata per essere dei Tarantino. Almeno bisognerebbe riuscire a scrivere dei dialoghi inossidabili e affidarli ad attori di una certa stoffa. Qui i cinque interpreti in gioco aderiscono ai cliché del genere proprio per la loro opacità e per la classica "sacrificabilità" dei rispettivi personaggi.
Ok, si alza il sopracciglio quando l'eroico bellone si schianta miseramente, mentre il tossico sbiliato mostra d'aver capito meglio e prima degli altri l'assurdo gioco in cui tutti loro sono finiti. Ma è tutta qui la provocazione?

Il cameo finale di Sigourney Weaver regina del male non salva il carrozzone.
Rimane una geniale locandina.


Mario G

Last modified on Wednesday, 30 May 2012 17:32
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