Il nuovo Silent Hill di Michael J. Bassett (in apertura la brutta locandina italiana, qui sotto a destra un più inquietante poster internazionale) circola nelle sale italiane dalla notte di Halloween e probabilmente molti di voi ne avevano già letto la mia breve recensione sul blog Vita Digitale del Corriere della Sera online.
Tuttavia, contavo di ritornare sull'argomento approfondendo il rapporto fra cinema e videogiochi, un universo a me estraneo (probabilmente per motivi anagrafici) ma che da anni sta avendo un impatto potente sull'evoluzione del cinema, specialmente di quello ad alto tenore spettacolare, d'azione, supportato dalle meraviglie che la CGI e il 3D oggi mettono a disposizione dello spettacolo commerciale. Dopo Tomb Raider, la saga fanta horror di Resident Evil è già arrivata al quinto capitolo, dimostrazione del fatto che gli incassi continuano a sostenere le acrobatiche gesta della bella Jovovich-ammazzazombie.
Ok, sempre di film "spara-spara per ragazzini" si tratta, dice il cinefilo snob. E anch'io non mi sottraggo al giudizio: come appunto ho già scritto, nessuno dei due Silent Hill mi è parso un capolavoro, nemmeno all'interno della storia del cinema horror. Una bella partenza da incubo che si fonde con la realtà, ma che finisce in soluzioni indubbiamente spettacolari ma narrativamente imperscrutabili e pacchiane.Ma la domanda mi rodeva dentro. E' proprio tutto qui? I ragazzini decretano il successo di un videogioco e Hollywood glielo serve anche al cinema per continuare il lucroso franchise grazie a un po' di effetti speciali? Eppure ricordo che, già all'inizio del successo del vieogame della Konami (nell'immagine a destra, uno screen shot del Silent Hill 2), nel '99/2000, sentivo parlarne dagli addetti ai lavori come di un gioco estremamente innovativo: più basato sulla creazione di un'atmosfera che sulla semplice sfida ammazza-il-mostro, intuivo che Silent Hill avesse le carte, il mood per dire qualcosa al mondo del cinema, da cui traeva con intelligenza gli avanzatissimi e lugubri scenari di gioco.
Ecco perché finalmente mi sono rivolto ad un esperto nel ramo: Sergio Giannone, blogger testé laureatosi in Scienze della Comunicazione con una tesi dal titolo "Narrazione interattiva: il videogioco come medium post-cinematografico". A lui ho chiesto quindi di analizzare il film di Bassett con l'occhio di chi proviene dalla console, a lui cediamo dunque la parola.
Raramente il binomio “cinema – videogiochi” ha dato vita a qualcosa di interessante, se prendiamo in considerazione la sua manifestazione più evidente: gli adattamenti. Sebbene i due mezzi condividano la natura audiovisiva, infatti, c’è qualcosa del videogioco che il cinema (nella forma in cui lo conosciamo) non potrà mai incorporare al suo interno, ovvero l’interattività. Può tematizzarla, certo, può imitarla attraverso soluzioni estetiche più o meno affascinanti, ma non può metterla in atto. Semplificando, ma neanche troppo, è questa la ragione per cui il cinema ha (quasi) sempre fallito miseramente nel tentativo di adattare un’opera videoludica.
La questione, tuttavia, assume caratteri del tutto diversi se prendiamo in considerazione il genere horror. Un genere che il videogioco ha saputo ereditare con successo dal grande schermo, ri-mediandolo e ri-adattandolo in chiave interattiva nel genere videoludico oggi conosciuto come survival-horror – basti pensare a Resident Evil, chiaramente ispirato ai capolavori di George A. Romero, o a Silent Hill. Non è un caso che i film “videoludici” di maggior successo commerciale siano stati quelli ispirati alle saghe appena citate: nell’horror, cinema e videogiochi si influenzano a vicenda, attraverso una serie di andate e ritorni che non ha più (o, meglio, non dovrebbe avere) l’interattività come centro focale, bensì le atmosfere.
Il caso di Silent Hill è emblematico, sotto questo aspetto. Il successo della serie videoludica targata Konami (a destra un'immagine del capitolo Downpour della saga ludica)ha fatto leva su location e situazioni fortemente caratterizzate, inquietanti quanto affascinanti, in grado di emergere al di sopra della natura interattiva del videogioco (che resta ovviamente centrale). Non a caso, il primo adattamento cinematografico, diretto nel 2006 da Christophe Gans, ha attinto a piene mani dalle atmosfere del videogioco, riproponendole sul grande schermo con estrema fedeltà e con consapevolezza artistica.
Nonostante Silent Hill (il gioco) sia dotato di un’estetica palesemente cinematografica, l’operazione di adattamento non era facile e il lavoro svolto da Gans ha avuto il merito di riuscire a soddisfare sia i palati dei videogiocatori, sia quelli di un pubblico meno avvezzo al joypad. I personaggi, ad esempio, sono spesso inquadrati di spalle e vengono seguiti dalla cinepresa simulando i movimenti tipici della telecamera virtuale, ma senza scadere in una banale emulazione delle meccaniche interattive. In altre parole, l’opera di Gans rende giustizia al videogioco, ma anche (e soprattutto) al cinema.
Il nuovo Silent Hill: Revelation 3D arriva sei anni dopo il lungometraggio di Gans. Tuttavia, il film, scritto e diretto da Michael J. Bassett, non riesce a replicare il feeling offerto dal prequel. La narrazione risulta poco comprensibile a chi non ha mai giocato Silent Hill e, nonostante sia, di fatto, una mera imitazione del terzo capitolo della serie, non riesce a ricrearne le atmosfere. Certamente, non basta riproporre uno dei personaggi chiave della serie (Pyramid Head) per dar vita a un adattamento degno di questo nome (sebbene, bisogna riconoscerlo, alcuni mostri sono realizzati con estrema fedeltà, le infermiere su tutti, come vedete dalle due immagini tratte dalla relativa sequenza nel film, qui a destra e a sinistra, NdR).
Non è questa, dunque, la strada da seguire. Nell’ispirarsi al videogioco, il cinema dovrebbe mettere da parte le ambizioni interattive, totalmente fuori dalla sua portata, e concentrarsi piuttosto su quello che l’occhio della cinepresa, anche con l’ausilio della computer-grafica, può cogliere appieno. Non deve cercare di essere troppo fedele all’opera originaria, ma al tempo stesso deve ricrearne le sensazioni. Portare un videogioco al cinema non può essere una mera operazione di “trasporto”, ma dev’essere una trasposizione, una vera e propria traduzione tra due linguaggi (quello videoludico e quello cinematografico) così simili eppure così diversi tra loro.
In questa prospettiva, il lungometraggio di Gans è il miglior film tratto da un videogioco. E per Bassett non era facile replicare una tale operazione.
Sergio Giannone
P.S. Posthuman ringrazia Sergio Giannone per il suo contributo e lo attende per altri interventi sul turbolento mondo videoludico/cinematografico.