"La storia del primo amore tra Maren, una ragazza che sta imparando a sopravvivere ai margini della società, e Lee, un solitario dall’animo combattivo; è il viaggio on the road di due giovani che, alla continua ricerca di identità e bellezza, tentano di trovare il proprio posto in un mondo pieno di pericoli e che non riesce a tollerare la loro natura."
Questa è l'introduzione che si legge sulla scheda di Bones and All (locandina italiana qui a destra, internazionale sopra a sinistra) sul sito del cinema Beltrade, cineteca milanese dei veri cinéphile, che coraggiosamente sabato scorso hanno sfidato il gelo padano accodandosi con pazienza davanti all'entrata della sala per vedere l'ultimo capolavoro del regista italiano più internazionale del momento, Leone d'argento a Venezia 2022, in lingua originale naturalmente. Osservazione confortante: prevaleva la giovane età, sarà per omologia con quella dei due bravissimi protagonisti, Taylor Russell e Timothée Chalamet, ormai il "giovane Holden" in pellicola del XXI secolo.
Osservazione curiosa: chi scoprisse il film dalla cartolina promo in distribuzione alla biglietteria (a tergo dell'immagine qui a destra), non saprebbe fino a 5' dall'inizio - quando Maren sgagna un dito a un'amica quasi staccandoglielo - che si tratta di un film di cannibali. Sarà forse per come ne parla il regista stesso: «Bones and All è un film sugli amori impossibili, sui reietti e sul sogno di trovare un luogo in cui sentirsi a casa. È la storia di due giovani che scoprono che, per loro, non esiste un posto da poter chiamare casa, per cui devono reinventarselo. Maren e Lee vanno alla ricerca della loro identità in situazioni estreme, ma le domande che si pongono sono universali: chi sono, cosa voglio? Come posso sfuggire a questo senso di ineluttabilità che mi trascino dietro? Come possono entrare in sintonia con qualcun altro?».
E' evidente che Guadagnino - traducendo l'omonimo romanzo (da noi Fino all'Osso, Panini ed.) di Camille DeAngelis (copertina sopra a sinistra) - punta a una versione molto d'auteur del genere cannibalico, benché il film non manchi di scene forti e di sangue versato (sappiatelo, se andate con fidanzate/i delicati di stomaco). Ma provate a fare una ricerca su Google per immagini: l'unica bocca insanguinata che troverete è quella di Chalamet che vedete riprodotta qui accanto. Per il resto, potreste essere portati a credere di starvi accostando a una versione aggiornata de La rabbia giovane di Malick (idea poi non tanto peregrina, in fondo), che si snoda in una squallida America periferica fatta di paesucoli grigi e insignificanti, degna di un road movie di Jim Jarmusch. Periferia dell'anima che i due giovani nomadi attraversano, cibandosi come possono e lasciando ben presto un luogo dietro l'altro per tema di veder scoperte le loro inaccettabili abitudini alimentari.
Visione d'autore di una figura horror come il cannibale che può essere accettata anche da chi non andrebbe a vedere un horror neanche dipinto. E che - potenza dell'ufficio stampa di Guadagnino, immaginiamo - nessuno ha sinora accostato alla comunque lunga teoria degli sguardi filosofici sui mostri della narrativa horror visti in chiave esistenzialista: Il buio si avvicina della Bigelow (vampiri nomadi), The Addiction di Abel Ferrara (vampiri filosofi), o Lasciami Entrare di Thomas Alfredson, coi suoi vampiri adolescenti emarginati, forse il più vicino al film di Guadagnino.
Come notate, è perlopiù la versatile figura del vampiro che finora ha attirato su di sé lo sguardo cinematografico di registi intenzionati a piegare i cliché dell'horror a una visione filosofica personale e metaforica dell'incubo di doversi cibare dell'altrui linfa vitale per tirare avanti. No, non è del tutto vero: c'era stato anche il bel Cannibal Love (Trouble Every Day) di Claire Denis, con una superba Beatrice Dalle cannibale, ma lì c'entrava anche una feroce pulsione sessuale che qui invece sembra insidiare solo il viscido Sully (bravissimo Mark Rylance, che vedete a destra con Maren/Taylor); il quale però è già un cannibale maturo, ormai rassegnato al cinismo del mors tua vita mea.
I due giovani protagonisti, eredi genetici della maledizione di doversi nutrire come belve, loro invece no: sono puri quanto malinconici, cercano solo una scintilla d'amore che alla fine possono trovare solo in un simile. Anche se, a differenza dei citati vampiri della tradizione horror, la loro maledizione non li mette al riparo neppure dal rischio di finire pietanza di un proprio simile.
Nel cupo mondo di Guadagnino i freak non sono poi neppure meglio di noi meschini umani. Un mondo che il regista ambienta negli anni '80, con canzoni dei Duran Duran e di altre star dell'electro pop dell'epoca che cozzano felicemente con i dolenti arpeggi di chitarra acustica distillati dal duo Trent Reznor/Atticus Ross, ormai un trade mark della soundtrack cinematografica hollywoodiana contemporanea. Perché proprio negli Eighties? Che il regista volesse mettere l'immagine di quell'America grigia, periferica e 'neorealista' a contrasto col periodo più gaudente del reaganismo rombante? Vi lasciamo questa riflessione storica senza certezze, perché non sappiamo se l'ambientazione sia presente anche nel romanzo o scelta puramente registica.
Finale tragico col botto da non guastare assolutamente, anche perché - al di là di ogni osservazione su come viene presentato - il film è da vedere assolutamente come il titanico Suspiria che l'ha preceduto, perché sarà sicuramente uno dei capisaldi del morente 2022.
Un 'pasto nudo' che se fossimo degli spiritosoni, verrebbe da definire... da gustare!
Mario G
PS: sopra il titolo, un disegno originale by Roberta G ispirato all'atmosfera del film di Guadagnino