Leatherface, che esce oggi (14 settembre) nei cinema italiani distribuito da M2, è ormai l’ottavo film della storica saga di Non Aprite Quella Porta, iniziata come sanno anche i sassi nel 1974 con l’indimenticato horror low budget del compianto Tobe Hooper, qui presente (per il suo ultimo viaggio nell'orrore) in veste di produttore insieme a Christa Campbell e Lati Grobman. La novità è che il film – che si pone come prequel del franchise – schiera alla regia un duo europeo: i francesi Alexandre Bustillo e Julien Maury, sugli scudi della comunità horror per l’originale À l'intérieur del 2007, noto al mondo come Inside. Un film che secondo me partiva da dio e poi sbracava un po’ nell’eccesso splatter e dei finali multipli, ma doverosamente incluso nel dossier di Nocturno Donne da Morire per l’inesorabile evoluzione della figura femminile nel genere che rappresenta, avendo una donna (incinta) come vittima e un’altra (Beatrice Dalle) come “cattiva”.
Il difetto dell’eccesso a mio parere torna anche nel debutto hollywoodiano della coppia, pure salutato da grandi entusiasmi (ben 5 stelle per Nocturno e quasi altrettanto da Rotten Tomatoes, ma ho sentito esclamare vari superlativi all’uscita della proiezione stampa di ieri): Leatherface è infatti un’orgia gore pressoché ininterrotta, dal prologo in cui al protagonista bambino viene “regalata” per il compleanno la prima vittima da affettare fino praticamente alla fine, non fa soste, non dà respiro, non fa sconti a nessuno. E non distoglie la mdp di fronte alle situazioni più morbose: non solo i numerosi squartamenti in primo piano (pare realizzati con effetti plastici e prostetici “all’antica” e poco digitale, chapeau), ma anche una scena di sesso selvaggio su un cadavere in putrefazione e un insostenibile “nascondino” dentro una carcassa di mucca parimenti guasta (qui a destra).
E, se – come si diceva a proposito di Mr Suicidio – l’horror DEVE disturbare, va riconosciuto ai due francesi di non arretrare di fronte a nulla, anzi d’aver palesemente cercato di superare molti limiti: se è vero che il trailer di The Devil’s Candy è stato censurato, vien da chiedersi cosa i censori riterranno “mostrabile” di questo Leatherface (e penso anche alla citata scena di sesso abbastanza esplicita sul mercato USA).
Se è questo che chiedete all’horror, accorrete senza remore: Bustillo e Maury vi saziano senza economia! E va detto che girano bene. Se invece pretendete che anche l’horror più visivamente estremo poggi su solide basi narrative per conquistare la vostra empatia per i personaggi narrati, portandovi così verso la ben nota “sospensione dell’incredulità” anche nei confronti delle situazioni più inimmaginabili, è in quest’area che i francesi peccano maggiormente. Infatti ci mostrano che, qualche anno dopo, quello stesso bambino è parte integrante della famigliola squartatrice (guidata dalla perfida matriarca Lili Taylor, indimenticata vampira tormentata nel The Addiction di Abel Ferrara, che vedete nella foto sotto a sinistra) nel ruolo di adescatore di possibili vittime.
Purtroppo per lui, una di queste è la figlia del ranger Hal Hartman (Stephen Dorff, sopra a destra armatissimo), che gliela giura e lo fa finire in un turpe manicomio (che sembra l’Asylum dell’American Horror Story seconda stagione), dove pure la bontà non regna sovrana, perché ogni sgarro è punito a colpi d’elettroshock. Ma la ribellione del corpulento e tonto Bud (Sam Coleman) scatena una rivolta, che consente a quest’ultimo di fuggire, con l’amico Jed (Sam Strike) e un’altra coppia di assatanati e sessuomani (Jessica Madsen, nelle due foto in alto armata e catturata, e James Bloor).
Qui sta la prima trovata originale di Bustillo/Maury: nell’ospedale psichiatrico ai ragazzi, ormai adolescenti, viene cambiato nome per distaccarli completamente dai loro retroterra familiari traumatici, quindi noi non saremo sicuri fino alla fine di quale di loro sia il “predestinato” a diventare il killer dalla maschera di pelle umana.
Fuori dalla famigerata, mefitica fattoria Sawyer al centro della saga, gran parte della storia verte quindi più su un survival horror a metà via tra Natural Born Killers e i Devil’s Rejects (La Casa del Diavolo) di Rob Zombie, essendo i protagonisti braccati non tanto delle vittime ma dei killer psicopatici, inseguiti da uno sbirro che sembra assetato di sangue quanto loro. Ma, anche se i registi hanno scelto di rinunciare alla classica divisione buoni-cattivi dell’horror classico (altra originalità dell’impianto), le psicologie che tracciano per i loro personaggi restano purtroppo (a differenza per esempio del succitato romanzo di Nicole Cushing) piuttosto rozze e fumettistiche un po’ per tutti: psichiatra sadico, sbirro bastardo, coppia di killer assatanati, infermiera buona e bella loro ostaggio...
E questo, se per un horror può sembrare un sofisma da raffinati, per me rimane comunque un peccato che impedisce allo spettatore di empatizzare coi personaggi e colle loro traversie: infatti non si riesce a credere che la bella infermiera Lizzy (Vanessa Grasse) per mezzo film sgambetti dietro al folle quartetto sembrando più la fidanzata del “buono” Jed più che l’ostaggio di un team di psicopatici, i quali tra una mattanza e l’altra rischiano talvolta di confondersi con i tanti drappelli di giovani in fuga dai killer visti in centinaia di slasher. Ecco, la sensazione che ho avuto io mentre il film avanzava, era che i caratteri mutassero un po’ da razionali a pazzi a spaventati a seconda della successiva scena splatter che dovevano giustificare nella trama.
Naturalmente vi lascio scoprire da voi stessi chi finirà per vestire la storica maschera brandendo la sega elettrica, ma il mio giudizio complessivo è quello di un sanguinario guilty pleasure più che del capolavoro che viene definito da più parti. Anche se un piacere “bello impresentabile”, certo, e decisamente per stomaci forti.
Mario G