“Scegliete la vita; scegliete un lavoro; scegliete una carriera; scegliete la famiglia; scegliete un maxitelevisore del cazzo; scegliete lavatrici, macchine, lettori CD e apriscatole elettrici. Scegliete la buona salute, il colesterolo basso e la polizza vita; scegliete un mutuo a interessi fissi; scegliete una prima casa; scegliete gli amici; scegliete una moda casual e le valigie in tinta; scegliete un salotto di tre pezzi a rate e ricopritelo con una stoffa del cazzo” (Irvine Welsh, incipit di Trainspotting).
Oppure scegliete un arredamento di design ultra essenziale conceptual art: cubi di plastica bianchi modulari luminescenti a led e tubi al neon, componete e disfate tavoli da pranzo, letti e pareti di questa bella casa da film di fantascienza. Come fanno gli attori di Teatro del Simposio: Ermelinda Çakalli, Alessandro Macchi, Riccardo Buffonini, Luigi Maria Rausa, tutti vestiti uguali di trench neri macchiati di vernice che sembrano rubati a Snowpiercer. Compongono gli ambienti di una casa moderna, intorno alla quale siamo disposti noi, il pubblico: obbligati a guardarci fra da una parte all’altra mentre seguiamo loro in scena. Obbligati a specchiarci nella prigione di convenzioni e luoghi comuni in cui accettiamo di vivere la nostra vita quotidiana “normale”. Perché i quattro attori anonimi non vivono in un futuro distopico, stanno nel nostro presente, quello in cui noi ci sposiamo, mettiamo su casa, facciamo figli, ci preoccupiamo scrupolosamente della loro sicurezza, laviamo la ciotola del cane e i tappetini della macchina, facciamo vacanze in barca. E ci felicitiamo quando le minoranze etniche “sporche” emigrano verso altri quartieri.
Incuranti del fatto che nelle strade subito al di là del nostro pettinato giardinetto si dia fuoco alle auto e ci si spari a colpi di pistola. Colpi che magari ogni tanto riescono perfino a schizzare attraverso le paratie stagne delle nostre finestre, colpendo uno di quei bambini della cui assoluta sicurezza continuiamo a preoccuparci, comprando auto con airbag su ogni lato, foderando gli spigoli dei mobili, mettendo loro il casco se vanno in bici e gli occhialini se vanno in piscina, le creme se stanno al sole. Ma siamo “felici”, perché comunque queste “emergenze”, come spari per strada e quelle sgraziate auto rovesciate e date alle fiamme, accadono un po’ meno spesso di prima. E anche la luce adesso “sembra più… luminosa”. Fuori il mondo si intuisce a malapena, dev’essere ridotto a un cumulo di macerie (materiali e morali), ma dentro il Cubo (e il riferimento al film di Vincenzo Natali non sembra poi neanche così peregrino) si compone e ricompone continuamente in nuove eleganti geometrie, fino ad imprigionarci definitivamente in un “The Wall” funzionalista senza via d’uscita.
Questo l’effetto dei quattro testi scritti da Martin Crimp in periodi diversi – Consigli alle donne irachene, meno emergenze, Faccia al muro, Cielo tutto blu – e intrecciati dal regista Francesco Leschiera, (coadiuvato nell’impegno dall’amico Chris White, connazionale dell’autore) in un unico testo di scena, cioè Frammenti di contemporaneità (Meno emergenze). Forte di notevoli quanto (ça va sans dire) essenziali scenografie ideate dal regista stesso e dei costumi studiati da Ilaria Parente, che vedete nelle foto ai lati. Oltre che della recitazione coerentemente astratta degli attori citati sopra, che rendono il testo una partitura minimalista (a proposito, begli interventi musicali vagamente radioheadiani di Antonello Antinolfi) di frasi brevi, asettiche, continuamente ripetute ora da un personaggio ora dall’altro, sotto forma di assurde domande e compiacenti non-risposte, ora stratificate in ripetizioni sfasate come onde di risacca del “tutto bene in my back yard”.
È un altro “percorso di cancellazione della realtà” attraverso le parole, usate per “arredarla” senza mai esprimerla veramente. Ma fa più vittime delle armi da fuoco usate da quei teppisti di altre razze là fuori, perché le parole del nulla sono puntate direttamente su tutti noi. Da noi stessi, senza pareti che ci difendano dall’ultima emergenza: essere “già morti dentro il cristallo dell’orologio ma ancora vivi nello spazio originario, in attesa che risuoni lo sparo” (Don DeLillo, finale di Cosmopolis).
Mario G