"Noi sappiamo che sotto l'immagine rivelata ce n'è un'altra più fedele alla realtà, e sotto quest'altra un'altra ancora, e di nuovo un'altra sotto quest'ultima, fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta, misteriosa che nessuno vedrà mai, o forse fino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà."
(M. Antonioni)
Quella in epigrafe al nostro articolo è solo una delle moltissime citazioni dagli scritti di Antonioni che punteggiano l’Identikit di una donna, ultima regia di Antonio Syxty in scena ora al Teatro Litta/MTM, proiettate sui due schermi in scena che ci rimandano alternativamente scene dai suoi film e riflessioni del Maestro su realtà, donne, arte e cinema, nella drammaturgia (di Valeria Cavalli) affidate a Guglielmo Menconi, che entra in scena per sedersi a un tavolino al centro, dal quale sgrana briciole di filosofia sull’imprendibile spiaggia del mondo. Il quale, come dice un’altra di esse, “non è più né significante né assurdo. Esso è, semplicemente”. Quest’ultima è di Robbe-Grillet, come altre ne scorreranno nel corso dello spettacolo, da Derrida, Lacan, Dostoevskij, persino dalle note di regia dello stesso Syxty su un primo progetto teatrale legato all’opera di Antonioni degli anni ’80: Il filo pericoloso delle cose. Impossibile ricordarle tutte, ed è un peccato perché lo meriterebbero.
Del resto, un’altra citazione, stavolta dello stesso Antonioni dice: “Io non so com'è la realtà... ci sfugge, mente di continuo. Io diffido sempre di ciò che vedo, di ciò che un'immagine ci mostra, perché immagino ciò che c'è al di là: e ciò che c'è dietro un'immagine non si sa”. Con ciò forse da un lato ci consola un poco per i brandelli di testo (e di senso) che ci sfuggono, mentre dall’altro ci offre il vero senso complessivo dell’astratta, glaciale quanto visivamente perfetta messinscena. Che, oltre ai cartelli con le citazioni, si ambienta in uno spazio neutro in bianco e nero, definito da alcuni elementi scenici (tavolino, telefono, sedie, appendiabiti, ventilatore divanetto) senza con ciò rappresentare realisticamente una casa: piuttosto – dice sempre il regista nelle note allo spettacolo attuale – potrebbe sembrare “un set fotografico/cinematografico non meglio definito”.
Ideale ambientazione di una di quelle storie del disagio e dell’incomunicabilità del regista ferrarese, di cui la drammaturgia è diretta emanazione: abitata da due donne, Caterina Bajetta e Bruna Serina de Almeida, alte, belle, eleganti e senza nomi nel testo, una bionda l’altra mora. Si scambiano più volte un impermeabile nero, simbolo della loro sostanziale intercambiabilità (anti)narrativa.
Una, molto borghese e cittadina, parla al telefono annoiata con un uomo delle cose che non farà in una calda giornata estiva milanese (esattamente come quella in cui abbiamo visto lo spettacolo, per di più nella piena immersione artaudiana dovuta a un blackout dei condizionatori in teatro!). L’altra appartiene a un ambiente più marino, si toglie le scarpe coi tacchi per camminare sulla spiaggia, sembra aver conosciuto lo stesso uomo con cui parla al telefono la prima, in un altro tempo. Forse dopo averla conosciuta in ospedale a seguito di un incidente, in cui quella ha perduto la memoria? Forse lei ora è la nuova compagna dell’uomo evocato dopo la separazione dalla bionda? Forse la donna più giovane è una proiezione dell’altra, è lei stessa in un’altra fase della vita. O forse tutto è illusione e di nulla possiamo trovare conferma, mentre la realtà ci sfugge fra le dita come la pallina in una partita a tennis fra mimi.
Eppure, Syxty pone a suggello del suo lavoro un’altra frase di Antonioni: “Le persone non entrano per caso nella nostra vita, le chiamiamo” (dal film La città è in bianco e nero, del 1960). Quindi perché la bionda che passa i pomeriggi a fissare la dirimpettaia dalle belle mani che cura i gerani ha evocato l’entrata della mora nella propria vita? Perché cerca di reimparare a ballare insieme a lei?
Non chiediamo la risposta a Syxty/Cavalli, né alla psicanalista lacaniana Maria Barbuto che ha collaborato al loro lavoro di scrittura: secondo lei “Ognuna di queste donne diventa la rifrazione della stessa immagine, una parte della stessa che si riproietta all’infinito come a rappresentare l’inafferrabilità del femminile e, come direbbe Freud, l’enigma stesso della femminilità”.
I drammaturghi ci lasceranno comunque a galleggiare nella loro labirintica messa in scena, che potrebbe continuare all’infinito a giustapporre frammenti non coincidenti e dialoghi senza vero dialogo, come una video installazione che si ripete in loop. Della quale sfoggia anche l’affascinante, algido perfezionismo visuale: quadri monocromi proiettati sugli schermi come un Mondrian in movimento, gesti ritualizzati, silhouette controluce. Una messa in scena che curiosamente ricorda (involontariamente, perché il regista non ha visto il film) The Neon Demon di Refn: la stessa vacuità nel distaccato vaniloquio che le due belle si scambiano come le modelle losangeline, come previsioni del tempo di un lontano pianeta; le stesse figure geometriche lineari e fredde a cromatismi saturi a inquadrare le due donne in scena, la stessa astrattezza di fondo su origini, psicologie, reali motivazioni dei personaggi ad agire. Quindi sul senso ultimo del “drama” stesso. Non a caso anche sul film del danese s’è detto di una possibile ricognizione nei misteri del femminino.
Quella teatrale, sulla scorta degli scritti di Antonioni, oltre a un’accattivante colonna sonora di canzoni della memoria in sottofondo, sfoggia anche una vasta messe di clip dai film del Maestro, sempre proiettate sugli schermi in scena: una moltiplicazione dei segni, dei rimandi, delle visioni, possibili ricordi, che però secondo me rischia di distrarre l’attenzione con il gusto del citazionismo, del “ah, ricordi che scena…”.
Ma si potrebbe anche rispondere, alla Antonioni: distrarre… dalla comprensione di cosa?
Noi vi consigliamo d’immergervi in ambedue le visioni (teatrale e filmica) a stretto giro per confrontarle. Lo spettacolo del Teatro Litta è in scena fino al 9 luglio. E, come direbbe la sua protagonista bionda, è estate. Continuerà a far caldo.
Mario G