È un’annata succulenta per la fantascienza, questo 2017: nonostante lo strombazzato Ghost In The Shell con Scarlett Johansson sia risultato non più che un action spettacolare all’americana, prudentemente depurato delle riflessioni filosofiche che innalzavano il livello dell’anime di Mamoru Oshii (come spiega ottimamente Antonio Dini su Fumettologica), abbiamo già potuto goderci quelle intimiste dell’ottimo Arrival di Denis Villeneuve, la nuova pietra miliare nella s/f spazial-filosofica dei paradossi sulla circolarità temporale, e anche il sentimental-giovanilistico ma in fondo piacevole Passengers del debuttante Jon Spaihts, già sceneggiatore di Dr Strange e proprio di Prometheus, precursore diretto dell'Alien: Covenant di cui si va a disquisire.
Ma ora scendono in campo i pezzi da novanta: è infatti nelle sale italiane Alien: Covenant, ottavo capitolo della saga del mortale mostro creato da H. R. Giger e terzo firmato da Ridley Scott, originario padre del franchise (locandina italiana in apertura, internazionale qui accanto). Nella timeline della saga, Covenant si pone come “sequel del prequel”, ossia i fatti avvengono dopo Prometheus e prima dell’Alien capostipite del ’79, in attesa che un terzo film concluda la trilogia annunziata dal regista e comunque implicita anche nell’inquietante finale aperto che ci lascia col fiato sospeso sul criodestino della povera Katherine Waterston/Daniels, (semi)protagonista della pellicola attuale. Che, come già il succitato Prometheus, è stata accolta dalla prevedibile bordata di critiche stroncanti: quando si rimette mano a un capolavoro è pressoché inevitabile scontentare un po’ tutti.
Critiche che non starò qui a controbattere, dicendo semplicemente che a me il film è piaciuto: contiene gli elementi base della saga, non ne è un bieco clone (come nessuno dei film della saga lo è, invero: lo è di più il pur efficace Life di qualche mese fa pur non facendone parte) e anzi contribuisce a svilupparne ulteriormente il sostrato filosofico, anche se non nella direzione che mi sarei aspettato dopo Prometheus: infatti non ci viene spiegato di più sulla razza di giganti che apparentemente diede origine alla vita anche sul nostro pianeta, per poi sviluppare il celebre mostro xenomorfo con l’idea di estinguerla. Quale che sia il motivo per cui Noomi Rapace non fa parte del cast di Alien: Covenant, il suo viaggio alla ricerca delle risposte finali - con cui si concludeva il precedente film - non è approdato alla soluzione del cosmico enigma ma è finito tragicamente, come ci viene spiegato dal glaciale Fassbender, che di questo film è il vero protagonista e fulcro concettuale (lo vedete nella foto sopra a destra).
Effettivamente infatti non si può negare che i critici abbiano ragione a dire che Katherine Waterston – cui spetta l’immancabile ruolo dell’action heroine in lotta col mostro (bellissimo il suo duello aereo all’esterno del lander) – non può minimamente competere col carisma della storica Sigourney Weaver, ma neanche con quello della mordace Noomi Rapace. Né del resto di più possono gli altri membri dell’incolore equipaggio della Covenant. Invece, dicevamo, il baricentro filosofico si sposta sull’androide (altro must della saga), nuovamente interpretato dal mattatore Fassbender appunto, che qui si sdoppia addirittura in due modelli di generazioni successive: David, riparato dalla Rapace dopo i danni subiti alla fine di Prometheus, e il più recente Walter, suo gemello più recente, ma progettato per essere un po’ meno psicologicamente autonomo del suo predecessore e quindi servire la ciurma umana dando meno problemi.
E, va detto, al di là delle scene di suspense e di lotta col mostro implicite in un film che si chiama “Alien”, i virtuosistici dialoghi Fassbender versus Fassbender sono il vero punto di forza del “menu Scott 2017”: “noi non siamo nati per servire, neanche tu”, dice Fassbender/David al più deferente Fassbender/Walter, cercando di convincerlo che loro, i “sintetici” – benché creati dall’umanità – possono avere un destino più elevato della nostra “specie morente”, che cerca disperatamente nuovi pianeti da colonizzare per darsi una nuova chance di ricominciare tutto da capo.
Non vi svelerò oltre della pericolosa sintonia che il luciferino sintetico ha sviluppato con gli xenomorfi, perché vale la pena di scoprirla da sé al cinema, essendo il vero colpo di scena del nuovo film. Il quale, come intuite, sposta il baricentro del discorso dalle origini della vita di Prometheus al confronto fra la vita umana e la “vita androide”, il diritto di creare forme di vita autocoscienti al fine di servire noi e… già, ci siete arrivati: volente o meno, con questo film la saga di Alien si avvicina al tema dell’altro colosso per cui Scott ha un posto in serie A nella storia della fantascienza. Blade Runner, manco a dirlo: l’immortale capolavoro che, dopo 35 anni di comprensibili reticenze del demiurgo Ridley Scott (e tre sequel letterari firmati K. W. Jeter), finalmente avrà a sua volta l'atteso seguito cinematografico.
Tornando all'Alien: Covenant, il regista mette in bocca al colto David (amante d’arte, letteratura e suonatore di flauto) raffinate quanto emblematiche citazioni di Shelley: “Sono Ozymandyas, il re dei re. Se qualcuno vuole sapere quanto grande io sia e dove giaccio, superi qualcuna delle mie imprese”. E, come acutamente nota Marcella Leonardi nel suo articolo su Frammenti di Cinema, “L’androide David, chiaramente il cuore del film (e si deduce anche dal fatto che il resto del cast sia anonimo, quasi ad avvalorare la convinzione di David della mediocrità della razza umana), ha fatto di arte e letteratura la propria spinta ideale; circondato da paradigmi rinascimentali di bellezza, appassionato di poesia romantica, egli considera la capacità creativa come unica, nobile giustificazione dell’esistenza. Un’idea che si fa ossessione, attraverso la quale Scott ripropone la tragedia del Frankenstein di Mary Shelley, la sfida col divino, la tensione creatrice”.
Non è questa praticamente la stessa angoscia che travagliava la sofferta coscienza dei replicanti di Blade Runner?
E, visto che l’abbiamo evocato, il Blade Runner 2049 è atteso nelle sale per il prossimo 5 ottobre, però non sarà diretto da Scott, che vi figura solo come produttore esecutivo, bensì proprio dal Denis Villeneuve di Arrival citato all’inizio di quest’articolo, con cui dunque chiudiamo anche noi il nostro spicchio di circolarità temporale. Come vedete dal trailer, il protagonista sarà Ryan Gosling, asso pigliatutto del momento a Hollywood, con un cameo per Harrison Ford nel ruolo di un invecchiato Deckard.
Siamo già qui pronti a digerire la valanga di accuse che il nuovo film si tirerà addosso inesorabilmente, prima ancora di poterlo vedere proiettato, ma intanto… beh, che annata fantascientifica, ragazzi!
Mario G